di Paola Marconi
2 agosto 2020 e.v. – 2 agosto 216 a.e.v. Sono trascorsi ormai 2236 anni dal macello di Canne. Non voglio parlare della battaglia e della tattica, giudicata geniale, messa in atto dal nemico dei Romani, Annibale, tattica tuttora studiata, per la sua perfezione, nelle maggiori accademie militari, da West Point in giù. Voglio invece narrare una vicenda a molti sconosciuta, quella della matrona Paola Busa di Canosa.
Pomeriggio del 2 agosto 216 a.e.v., campo di battaglia di Canne, Puglia, vicinanze di Barletta, nei pressi del fiume Ofanto. La battaglia è finita. Il massacro si è compiuto. Cinquantamila (o forse settantamila) caduti romani e italici, fra cui il console Lucio Emilio Paolo, il proconsole Gneo Servilio Gemino, l’ex magister equitum di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, Marco Minucio Rufo, due questori, ottanta senatori, ventinove tribuni militari, centinaia di patrizi, di nobili plebei, di cavalieri, giacciono nel sangue e nella polvere.
E’ la più grave disfatta mai occorsa alle armi romane. Diciannovemila uomini sono stati fatti prigionieri, fra romani e italici. La loro sorte sarà ben differente. I soci italici, che lo scaltro Annibale spera di trarre dalla sua parte, vengono liberati subito, senza condizioni. I romani, invece, sono trattenuti, con l’intento di utilizzarli come merce di scambio, per intavolare una trattativa e arrivare ad una pace che nei sogni di Annibale non tarderà ad arrivare, e ridimensionerà Roma a piccola potenza regionale del Lazio, ridando a Cartagine il ruolo, perso con la prima guerra punica, di signora e padrona del Mediterraneo Occidentale. Il senato, però, rifiuta categoricamente di trattare. Possiamo immaginare lo sconcerto del punico, educato alle dottrine militari ellenistiche, per cui ” battaglia vinta, il nemico chiede la pace “, tantopiù che, a questo punto, le battaglie vinte sono state quattro, con un crescendo rossiniano di caduti da parte romana. Ma questa è un’altra storia.
Torniamo a Canne. Diecimila superstiti della mattanza sono riusciti a fuggire. Tra questi, per fortuna di Roma, un giovane, appena diciannovenne, tribuno, appartenente ad una delle gentes più nobili di Roma, una delle cinque maiores, figlio di un ex console che porta il suo stesso nome, Publio Cornelio Scipione, il futuro Africano. Scipione, sedato sul nascere un tentativo di fuga all’estero architettato da alcuni nobili giovani ufficiali, si pone alla testa di un drappello di scampati e li conduce in salvo a Canosa, città vicina, distante appena quattro miglia dal campo di Annibale, città alleata di Roma dal 318 a.e.v., rimasta fedele a Roma, e che non defezionerà nemmeno dopo la disfatta di Canne.
Immaginiamo cosa dovesse essere quello scorato drappello: uomini disperati, atterriti e scioccati dalla terribile strage (la camera della morte della tonnara, la chiama il prof. Brizzi) sporchi del proprio e dell’altrui sangue, affamati, assetati, sfiniti, molti anche feriti, giungono a Canosa, scampando all’inseguimento dei punici. Infatti, come gli assedi, anche l’inseguimento strategico non sarà mai, per parlare eufemisticamente, uno dei cavalli di battaglia di Annibale, la cui abilità rifulge più che altro nella tattica da applicare sul campo di battaglia.
I fuggiaschi, dunque, arrivano a Canosa, e necessitano di tutto. Si può immaginare che, come tutti i perdenti delle battaglie di tutte le epoche, non abbiano subito trovato una amichevole accoglienza, anzi. Per fortuna viene loro in soccorso una matrona canosina, Paola Busa, appartenente ad una ricca famiglia di commercianti di origine probabilmente greca, i Buzas. Forse sposata o vedova, ha ereditato l’amministrazione dei beni di famiglia, che esercita con grande oculatezza e responsabilità, meritandosi l’ammirazione e il rispetto dei suoi concittadini. Paola Busa, difronte al triste spettacolo di quella turba di sbandati, non ha un attimo di esitazione: li accoglie in casa sua, li rifornisce di cibo, acqua e vesti pulite, e con l’ausilio di alcuni medici si prende cura dei feriti. Possiamo certamente ipotizzare che, per il prestigio di cui gode, il suo esempio venga seguito anche da altri canosini, che provvedono a fornire ai superstiti indumenti, cibo e anche denaro per il viaggio di ritorno.
La notizia dell’atto di generosità e solidarietà di Paola Busa non va perduto e giunge, portato dai soldati sopravvissuti, fino a Roma. A guerra finita, guerra, nonostante le quattro sfolgoranti vittorie di Annibale, vittoriosa per Roma, il senato le tributa grandi onori, come, secoli prima, li aveva tributati a Virgilia e Volumnia,, rispettivamente, moglie e madre di Coriolano, per aver salvato la città dall’attacco che il loro rinnegato congiunto voleva portarle.
Il ricordo del gesto di Paola Busa non si perse col tempo, e infatti la generosa matrona, oltre che da Tito Livio nel libro XXII del suo ” Ab urbe condita “, fu ricordata anche da Giovanni Boccaccio fra le donne illustri nel suo ” De mulieribus claris. “
Inoltre, senza saperlo, Paola Busa, con il suo gesto, contribuì alla vittoria di Roma. Infatti, i superstiti del macello di Canne, sia pur allontanati da Roma e confinati per tredici anni in Sicilia, andarono a costituire quelle due legioni cannensi che, a Zama, resistettero fino allo stremo delle forze all’attacco dei veterani di Annibale, fino al ritorno delle cavallerie romana e numidica, ritorno che fece pendere definitivamente la bilancia in favore delle armi di Roma.
Nella definitiva vittoria di Roma c’è quindi anche lo zampino, diciamo così di una donna generosa che, dopo una disfatta terribile, seppe seguire quello che le diceva il suo cuore, e soccorrere quei soldati sconfitti come se ognuno fosse suo figlio. Non dimentichiamo che una buona metà delle truppe romane era costituita da diciottenni e diciassettenni, appena arruolati con l’ultima leva. Il suo nome era Paola Busa, e permettetemi un briciolo di orgoglio nel constatare che questa grande matrona porta il mio stesso nome, il nome, anzi il cognomen, di un grande e valoroso caduto di Canne, il console Lucio Emilio Paolo, che, ferito, rifiutò il cavallo che un ufficiale gli offriva per mettersi in salvo, esortandolo, anzi, a correre a Roma per informare il senato della disfatta. Lucio Emilio Paolo era il suocero di Publio Cornelio Scipione, e, con lui, il cerchio si chiude. Nel segno di Roma. Quel giorno che avrebbe potuto essere la fine di tutto, rappresentò, invece, un nuovo inizio.