ORAZIO COCLITE, MUZIO SCEVOLA E CLELIA

di K. Monterosso

“Et facere et pati fortia romanum est.”

Operare e patire da forti è da romano

  • Tito Livio

Nella Roma antica il saper soffrire e morire per la Patria, con Pietas, era il valore massimo che un uomo potesse avere.

La storia di queste tre figure eroiche, si colloca nel VI secolo a.e.v.  tra la fine dell’età regia e l’avvento della repubblica.

Tarquinio il Superbo era stato da poco cacciato dalla rivoluzione del popolo per abusi di potere, violenze e cattiva amministrazione. Esiliato chiese appoggio a Porsenna, Lucumone di Chiusi, che intervenne marciando verso Roma.

Giunto alle porte della città eterna, probabilmente con un’armata di suoi alleati etruschi, composta da numerosissimi uomini ben armati, si accampò sul Gianicolo. Per entrare in Roma era necessario attraversare il fiume Tevere sopra l’unico ponte che i romani avevano costruito: il ponte oggi noto col nome di Sublicio (all’epoca ancora in legno), che si dimostrava essere una breccia pericolosissima. Gli uomini di Porsenna già stavano per attraversarlo, quando tra le fila romane si fece avanti un giovane di titanica forza e sconfinata temerarietà: il suo nome era Orazio Coclite. Egli dopo aver fermato i compagni che si stavano dando alla fuga, presi dal panico, li esortò a riarmarsi e distruggere il ponte con ogni mezzo possibile, compreso il fuoco, mentre egli avrebbe retto l’urto dei nemici. Ottenuto ciò che voleva, si parò da solo contro i migliaia di soldati etruschi che rimasero sbalorditi dall’enorme coraggio del romano, il quale, armi alla mano, si scagliò furibondo all’assalto riuscendo a tener testa all’intero esercito nemico e impedendone il passaggio. Nel frattempo i Romani, dietro di lui, abbatterono il ponte con grandi colpi di scure. All’improvviso si udì uno schianto di assi e di travi spezzate: il ponte crollò, trascinando con sé Orazio ed alcuni soldati etruschi. Il Romano era un buon nuotatore e riuscì a porsi in salvo, raggiungendo le rive di Roma salvata.

Porsenna però non si ritirò e pose assedio alla città, con la speranza che i Romani si arrendessero vinti dalla fame.

Non passò molto tempo per riscontrare nella città laziale gli effetti dell’assedio, ma proprio mentre risorse e viveri stavano per finire, condannando il popolo a morte certa, un gruppo di giovani aristocratici romani pensò di risolvere la questione tentando un’impresa temeraria:  uccidere Re Porsenna.

I giovani tirarono a sorte e toccò a Caio Muzio, che presentandosi al Senato, chiese l’autorizzazione ad oltrepassare il Tevere da solo e senza visibili drappelli, per perseguire l’arduo tentativo. Egli ottenne il consenso e dunque, vestitosi da guerriero etrusco, partì con un pugnale nascosto e s’infiltrò nell’accampamento nemico. Arrivato in prossimità del seggio reale, si trovò immerso in una fitta folla, poiché in quel momento si stava distribuendo la paga ai soldati, con Re Porsenna seduto su di un palco con accanto il suo scrivano. Questi ultimi due avevano vestiti molto simili e lo scrivano, che aveva un gran da farsi, si trovava ad avere tutti i soldati che si rivolgevano ad esso; il romano fraintese le figure ed uccise l’uomo sbagliato, trovandosi subito accerchiato dai soldati etruschi e condotto d’innanzi al vero Porsenna che lo intimò di dire chi fosse, allorchè il giovane patrizio rispose: “Sono un cittadino romano, mi chiamo Gaio Muzio. ho voluto uccidere un nemico e nemmeno di fronte alla morte ho meno coraggio di quanto ne ho avuto per uccidere; agire e soffrire da forti è proprio dei Romani. Nè sono io solo a nutrire contro di te tali propositi: dietro di me c’è una lunga fila di giovani reclamanti lo stesso onore. Preparati dunque a questa prova, se ti piace, a lottare in ogni istante della tua vita, a trovarti sempre un pugnale e un nemico nel vestibolo della tua reggia. Questa è la guerra che noi, gioventù romana, ti dichiariamo. Non avrai a temere alcun esercito, alcuna battaglia; ma dovrai vedertela da solo contro ognuno di noi!”.

A quel punto vide poco distante un braciere per sacrifici e continuò:

“Punisco la mia mano perché ha sbagliato”

E dopo aver pronunziato tali parole, pose la propaggine dell’arto destro nel fuoco, lasciandola carbonizzare e rimanendo con fermezza, impassibile al dolore, concluse:

“Guarda come un uomo considera il proprio corpo quando ama la propria Patria”.

Il Re rimase talmente esterrefatto dinnanzi alla grandezza di tale atteggiamento e così impressionato, che diede l’ordine di liberare il giovane, il quale tornò a Roma, dove fu poi soprannominato Scevola, ovvero mancino.

Porsenna iniziò ad avere forti paure nel vedere la forza di un popolo che con un solo uomo fermò il suo esercito sul ponte Sublicio e con ardito eroismo era disposto impunemente a qualsiasi sacrificio pur di salvare la propria libertà, così, volendo preservare la propria vita, decise di intavolare coi romani trattative di pace.

Come parte del trattato di pace, che pose fine alla guerra tra Roma e Clusium, Lars Porsenna ottenne terre e ostaggi del patriziato, tra cui la giovane Clelia della Gens patrizia Cloelia. La ragazza, da indomita ed orgogliosa romana, non accettava di piegarsi al dominio di un nemico, così, una volta portata all’accampamento del Lucumone, non distante dalle sponde del Tevere, aspettò la notte e prendendo in mano la situazione spronò altre otto fanciulle a non piegarsi al giogo dello straniero, incarnando quell’ideale per il quale i loro stessi uomini si erano dimostrati disposti a tutto. Elle in quanto figlie di Roma, non sarebbero dovute esser da meno, decisero così di sfidare coraggiosamente la sorte ed eludere le sentinelle di guardia tornando alla madre patria. Fu così che queste 9 romane fuggirono arrivando sino alle gelate sponde del Tevere, ma durante il tragitto furono scoperte e bersagliate dalle frecce avversarie. L’unico ponte che portava all’urbe, era stato distrutto durante la battaglia con Orazio Coclite, ma piuttosto che la resa, le ragazze si gettarono tra le impetuose acque del sacro fiume sotto una pioggia di dardi. L’eroismo fu ripagato con la riuscita dell’impresa. Giunte all’altra sponda furono accolte dai romani che nel frattempo s’erano armati pensando di essere sotto attacco, ed invece rimasero stupiti nel vedere le giovani donne emergere dall’onde. Clelia ricongiunse le compagne alle proprie famiglie, ma una volta d’innanzi al Senato, lo Stato romano prese la decisione di persistere saldi i virtuosismi propri del sangue dei loro padri, mantenendo fede alla parola data e riconsegnando le 9 fanciulle a Re Porsenna, che una volta ricongiuntosi tra le tende dei propri soldati ordinò che le romane venissero portate al proprio cospetto chiedendo chi fosse stato l’artefice della fuga. Clelia avanzò verso il Re, tenendo fisso lo sguardo con colui che avrebbe potuto condannarla a morte, ammettendo con baldanza la propria colpa e dicendo che da romana non si sarebbe mai chinata a un nemico e che sarebbe stata disposta a riscappare. Porsenna si ritrovò di nuovo d’innanzi all’orgoglio e la fierezza della stirpe romana.

Il Lucumone, già colpito dalla lealtà dei romani ed estasiato dall’arditezza persino delle loro donne, preferì alla fine l’amicizia dei Romani piuttosto che ostinarsi a dare appoggio alla causa del Re spodestato Tarquinio il Superbo, così decise di restituire gli ostaggi e le terre per avere una pace ancora più duratura.

Per le sue gesta vennero tributati a Clelia molti onori e nel foro venne innalzata una statua equestre dell’eroina, ancora visibile nella tarda Repubblica.