La statua dell’imperatore Giuliano e l’unità tra Gentili Ellenici e Romani

Statua esposta su un altare gentile presso l’Areopago di Atene

Il 21 giugno del 2775 dalla fondazione dell’Urbe (2022 dell’era volgare) la Comunità Gentile della Pietas e la Comunità Gentile Ellenica di Thyrsos hanno svolto riti, in occasione del solstizio estivo, dedicati all’imperatore Flavio Claudio Giuliano.

Immagine di un rito presso il tempio di Apollo ad Ardea
L’insegna dell’imperatore Flavio Claudio Giuliano, mostrata dal pontefice massimo della Pietas in prossimità dell’altare del tempio di Apollo ad Ardea

Le insegne di questo imperatore tollerante, scelte come simbolo della fratellanza spirituale tra Greci e Romani, sono state esposte in contemporanea sugli altari della religione romana e su quelli della religione greca: il tutto per esprimere un messaggio di unità spirituale fondata sui principi della solidarietà e della tolleranza religiosa, valori che caratterizzarono questo grande imperatore filosofo.

Presso il sepolcro dell’imperatore sono stato portati fiori, accompagnati dal simbolo del carro solare, ricco di significati profondi, connessi alla scansione del tempo degli uomini e del mito ed alla segreto della trasformazione della pietra interiore dell’individuo, quel medesimo sasso che vomitò Crono e quello dal quale Deucalione e Pirra fecero rinascere l’umanità.

Sepolcro del Divo Flavio Claudio Giuliano imperatore.

Ed è proprio di una rinascita che oggi abbiamo bisogno, spirituale, ricca di valori sani, che possa essere preludio di una nuova età dell’oro, fondata sul recupero e sul ripristino dei misteri della nostra Tradizione, emblema del potere umano della “trasformazione”. Come insegnava Pitagora: “tu abbi fiducia e confidenza, che l’uomo è della razza degli Dei”.

Sull’areopago di Atene è stato esposto il ritratto dell’imperatore Giuliano, una immagine pregna di significato.

Rituale presso l’areopago di Atene

Una copia di questa statua è stata inviata in dono al tempio di Giove a Roma: essa è stata offerta ritualmente il giorno 26 giugno, anniversario della morte di questo personaggio annoverato tra gli eroi ed i divi della tradizione.

26 giugno 2775. Tempio di Giove. La statua inviata dalla comunità Ellenica viene offerta ritualmente presso il tempio di Giove a Roma
La statua dell’imperatore Giuliano, donata dai fratelli della Comunità Ellenica al tempio di Giove, è stata posta in prossimità dell’ara interna, tra i doni e gli ex voto.

Questo gesto esprime la volontà di un legame sempre più stretto tra gentili ellenici e romani, il tutto in una via ricca di valori riassumibili in unico termine: Pietas, in greco Eusebia. Si tratta del sentimento di amore e rispetto nei riguardi del sacro, un sentimento ineffabile, impossibile da spiegare con il limite delle parole umane ma che può essere inteso da chiunque pratichi con amore la via spirituale del rapporto tra uomini e Dei. La dedizione all’onestà, alla verità, alla dolcezza, all’amicizia, all’Amore. Il miglioramento di se stessi per il tramite del superamento delle passioni umane a favore di una presa di coscienza interiore, che faccia ascendere l’essere umano alla condizione superiore che gli compete, prossima agli Dei, fondata sul distacco, sulla conquista della libertà interiore e sulla riscoperta di valori etici eterni, che consentono di vivere e amare in maniera celeste e divina.

Il tempio di Giove a Roma ospita svariati doni inviati e portati da membri e rappresentanti della Comunità Gentile Ellenica

Le attività rituali che, oramai da anni, uniscono i gentili ellenici e quelli romani in una grande Koinè culturale e religiosa, sono il segno di una grande trasformazione dei tempi e l’avvio di una importante rivoluzione spirituale che riparte proprio da qui, dall’Europa: questo continente deturpato dalle macerie delle guerre, dalle epidemie, dalla siccità, dalla crisi economica, riesce ancora a serbare la scintilla che ha riacceso la fiamma manifesta ed immortale della Tradizione, la quale oramai sta tornando sugli altari e nelle case, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, portando con sé una presa di coscienza spirituale destinata ad espandersi sempre di più, perché il fuoco che ieri ha covato sotto le ceneri oggi è stato rianimato dal vento divino, a dimostrazione che gli Dei esistono.

KALI-YUGA E TRADIZIONE GENTILE OGGI

Maurizio Bonanni
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Capita ogni tanto che qualcuno faccia riferimento a testi occidentali, scritti da esoteristi europei, per interpretare le sacre scritture indiane. In Pietas riteniamo che i migliori interpreti di una religione ne siano gli appartenenti, i seguaci, i maestri riconosciuti della medesima. Altrettanto riteniamo che laddove mutano i Geni dei luoghi, mutano anche i tempi. Se nella cultura indiana vi sono le grandi età dei grandi Dèi, è relativo ai luoghi che essi abitano e vivono, mentre per i nostri luoghi dobbiamo prendere a riferimento i nostri Dèì (ricordiamo l’oracolo di Delfi quando rispondeva che bisogna onorare le divinità dei propri luoghi e non preferirne una su altre), così prendere a riferimento i nostri tempi e le cognizioni locali. Se gli indiani stanno oggi affrontando il Kali-Yuga, noi siamo appena entrati nell’era dell’Aquario, dal 2012, anno in cui è stato consacrato il terreno ove oggi sorge il Tempio di Giove della Pietas. La cognizione delle ere e del loro susseguirsi è accennata nella filosofia platonica, nel neoplatonismo troviamo ulteriori sviluppi.
Nella nostra interpretazione, con il giungere dell’era dell’Aquario rinascono le Tradizioni etniche in tutta Europa (ed in effetti stiamo assistendo a ciò) e si svilupperà un fermento sempre più interessante, con una particolare rinascita della Tradizione Gentile e delle sue filosofie. Quindi noi riteniamo poco valide o nulle le interpretazioni degli occidentali sulla Tradizione dell’India, motivo per il quale preferiamo confrontarci direttamente con importanti rappresentanti dei gruppi induisti (a tal riguardo rimandiamo a qualche video:  https://youtu.be/xRdyI6Jt9jw   https://youtu.be/o1MEveU-Sqs ), fratelli induisti con i quali concordiamo in una lettura diversa dei testi sacri indiani e con i quali condividiamo questa particolare percezione dei mutamenti di Dei e Tempi in base ai luoghi.

E’ bene ricordare che presso i templi della Pietas sono giunti Bramini in pellegrinaggio, non perché da noi contattati, ma perché loro hanno avuto indicazioni dai loro Dèi di entrare in contatto con noi. Suddetti Bramini ci hanno chiesto di pubblicare dei libri con loro, noi abbiamo accettato ed il testo “Pietas, an introduction to roman tradizionalism” (reperibile qui: https://www.mythologycorner.net/tabid/811/language/en-US/Default.aspx?fbclid=IwAR1pEzwcOnkH_jysrZzr2gk3WHHQxgj1aUaZquab6DjUNF8v722XQ5mPv7c  ),  pubblicato da una loro casa editrice, vuole essere un segnale dei sacerdoti indiani a favore della Pietas ed in suo riconoscimento.

Un utente facebook ha posto la seguente domanda sulla pagina di Pietas Sicilia: <<Qualcuno abbe a dire: “I testi che ci parlano del Kali-Yuga e dell’età di Kali proclamano anche che le norme di vita valide per le epoche in cui, nell’uno o nell’altro grado, erano vive e operanti forze divine, nell’età ultima sono da considerarsi scadute. In questa vivrebbe un tipo umano essenzialmente diverso, incapace di seguire i precetti antichi; non solo, ma per via del diverso ambiente storico e, se si vuole, planetario, cotesti precetti, anche se fossero seguiti, non darebbero gli stessi frutti.” Voi vi sentite al di fuori di questa contingenza? >>

La nostra risposta è chiaramente affermativa: noi ci sentiamo fuori da tale contigenza, anche perché abbiamo verificato che tale interpretazione non è condivisa dai bramini indiani ed oltretutto abbiamo sperimentato  non essere vera. Innanzitutto quando si parla di forze di un’era, ci si potrebbe per esempio riferire alle energie delle prime genealogie di Dei (Caos, Urano, Crono) che non risponderebbero più mentre le nuove genealogie sarebbero portate a dare risposta (Zeus, Hera, Athena, Poseidone cc.); tuttavia neanche una simile interpretazione è vera: infatti i Grandi Dei delle prime generazioni hanno sempre risposto quando evocati. Consegue che le divinità sono forze, e dal big bang ad oggi le leggi matematiche che determinano la fisica (che noi chiamiamo Dei), non sono mutate e né si sono consumate. Per quanto esoteristi cristiani come Steiner o Scaligero vogliano far credere che la conformazione dell’uomo moderno è mutata al punto tale che gli Dei non possano rispondere, motivo per il quale ci si troverebbe costretti fare riferimento al Cristo in diverse sue accezioni (dal tipo umano fino a quello cosmico), noi abbiamo potuto verificare che non è così: quando abbiamo avuto bisogno di aiuto gli Dei ci hanno risposto, in numerose situazioni si sono manifestati, anche con epifanie, nel tempo ci hanno riferito oracoli e previsioni che si sono sempre avverati. Avendo noi, come comunità gentile, ritrovato il contatto diretto con gli Dei, essendoci stati dati riconoscimenti dai più importanti sacerdoti delle religioni straniere (abbiamo collaborato e collaboriamo in maniera diretta con i rappresentanti delle religioni etniche Europee, dalla Lettonia alla Grecia e con rappresentanti di grandi religioni come quella induista), avendo avuto legittimità dagli Dèi e dai maestri del filone ermetico (che in questi due libri potete ben vedere essere continuità del filone sacerdotale antico
Il dio del silenzio. Permanenze della tradizione esoterica egizia a Napoli Copertina flessibile – 13 marzo 2017 di Sigfrido E. F. Höbel https://www.amazon.it/silenzio-Permanenze-tradizione-esoterica-egizia/dp/8895063708 e L’Ordine Egizio e la Miriam di Giuliano Kremmerz, Egizia Fonte Cumana di Piazzetta Nilo. Ugo Cisaria. https://www.ilgiardinodeilibri.it/libri/__ordine-egizio-e-la-miriam-di-giuliano-kremmerz.php?id=19108&pn=71&gclid=CjwKCAjwsJ6TBhAIEiwAfl4TWNIJGTWdHfHNbfiJzWwQF9UhIanctRY7TUIuORTvYWVFKbFtP6YTrBoCRHIQAvD_BwE   ), riteniamo di essere riusciti a liberarci da quella “contingenza” che ci voleva schiavi per un meccanismo generante nani spirituali anziché viri. Noi infatti perseguiamo la via del vir, l’uomo fatto di vis che sviluppa le virtù, mentre l’homo fatto di humus, fango, è purtroppo vittima di tutte le idee assoggettanti, religiose e non solo, incatenato nella condizione di servo di qualche entità. Noi, che perseguiamo il pitagorismo ed  il platonismo, accettiamo l’asserzione “Tu abbi fiducia e confidenza, che l’uomo è della razza degli Dei”, e lavoriamo sull’acquisizione della dignità necessaria ad evocare gli Dei in piedi, a trattare con loro alla pari ed in pieno rispetto ed amore reciproco, come sarebbe giusto che imparassero a fare anche i coniugi tra di loro, per imparare a vivere quotidianamente una majestas degna del sacro. Noi perseguiamo la via della libertà, il metodo sperimentale e l’uso della ragione, il tutto per dimostrare a noi stessi che le scienze metafisiche sono valide e concrete.

Discorso del Pontefice Massimo dei Gentili per il rinnovo del fuoco sacro nel marzo MMDCCLXXV a.V.c.

Oggi è il giorno del Rinnovo del Fuoco Sacro, presso i nostri templi il Fuoco di Vesta è stato rinnovato e da qui si diffonde nelle case dei Gentili che lo custodiscono.
Intorno a questo Fuoco Sacro si sviluppa tutta la nostra spiritualità, e tutta la nostra ideologia ascensionale.
Con questo giorno, il primo di Marzo, incomincia per noi romani e gentili l’anno Sacro, il rinnovo primaverile è prossimo e così il Fuoco Sacro del Sole si trasmette nel Fuoco Sacro del tempio che a sua volta si trasmette nel Fuoco Sacro dell’amor coniugale e dei nostri cuori.
In questo momento storico l’umanità è colta da mille paure, schiava di ideologie prende posizioni estreme e giunge fino alle guerre; che questo fuoco che noi oggi rinnoviamo possa illuminare gli uomini e spingerli a competizioni più sane: come la produttività, come l’intelletto, lo studio, l’ approfondimento, la competitività della solidarietà verso il prossimo e nel volersi bene.
Infatti chi oggi compie soprusi su terzi, non si rende conto che, abbandonato questo corpo, potrebbe rinascere nel più povero degli esseri umani e avere così un destino terribile da lui medesimo scritto e stabilito.
Invece il compito degli uomini di spirito è far si che non vi sia più povertà su questo pianeta, che non vi siano soprusi, è compito degli uomini di spirito adoperarsi per una nuova età dell’oro.
Gli Dei oramai giungono, ritornano dopo questi duemila anni di un’era in cui era stato concesso agli uomini di gestire i propri destini e che hanno ricavato rovine anziché benessere.
Possano gli Dei illuminarci e far si che ognuno di noi possa seguire l’ideale più alto: del bene, della sapienza, dell’età dell’oro, della condivisione in amore e in affetto attraverso il grande strumento della giustizia e dei diritti.
Possa la meritocrazia tornare ad essere il nuovo strumento di validificazione tra gli uomini, possa il fuoco illuminarci. Grazie.

Approccio al Sacro

L’approccio al sacro è un’esigenza insita nello spirito dell’essere umano.

Ogni persona cerca la sua via e v’erge una forza a guida, sia essa il razionalismo più puro di un ateo od il misticismo sfrenato d’un fanatico religioso. Ma rimembriamo che la sapienza degli antichi romani recita: “in medio stat virtus”. La virtù sta nel mezzo, pertanto l’uomo sano è colui il quale trova il suo equilibrio nel punto medio tra due estremi. Chi fa ciò realizza un processo interiore che incomincia dalla mente; il pensiero è il primo mezzo che l’individuo utilizza nel suo cammino verso il Sapere. La “meditazione” è un’azione finalizzata a convogliare la persona verso il punto medio utile alla ricezione della giusta luce e analogicamente volta all’equilibrio. Così nel mondo antico erano appellati “filosofi” coloro i quali utilizzavano il grande potere della ragione umana per approcciarsi alla Verità; questi individui erano spesso a ridosso del tempio, altri più illuminati riuscivano a varcarne la soglia ed essere iniziati ai misteri. Pitagora venne iniziato nei templi egizi, poi in quelli della Caldea e suo maestro d’oriente, al dire d’alcune fonti, fu proprio Zoroastro. Socrate si pone con discorsi e forma mentis tipici del pensiero pitagorico, tanto che alcuni autori tardo-antichi lo definiscono un “pitagorico”. Plutarco venne iniziato ai misteri dionisiaci ed in tarda età divenne sacerdote a Delphi. Ipazia di Alessandria era figlia del rettore del Serapeo cittadino ed iniziata ai misteri isiaci e terapeutici. Così ancora ricordiamo Cicerone iniziato ai misteri augurali, Apuleio iniziato ai misteri isiaci ed osiridei, Celso, autore del “Discorso vero” era un iniziato, e così via. Il filosofo, l’amante della ricerca, incomincia il suo percorso distaccandosi dalla folla profana antistante al tempio, egli sale il primo gradino grazie all’uso della ragione, ma poi impara ad abbandonare la ratio a favore della Mens, un apparato divino interiore che permette il contatto col proprio Genio (Mens è la contrazione di meus ens, il mio ente interiore, ossia il Nume della persona) e l’ascenso alla  Luce intellettuale divina, che viene confermata nel Tempio. Infatti l’insegnamento misterico consiste in una conferma di Verità conquistate e raggiunte dall’iniziando.

Socrate, grazie alle sue meditazioni, sviluppò il contatto col proprio Genio interiore (Daimon) che l’avvertiva dei pericoli e gli indicava preziose perle di sapienza, che egli spiegava al discepolo solamente dopo che quelli l’avesse trovata nella propria interiorità.

Per comprendere meglio i concetti relativi all’iniziazione, bisogna prima capire come le fasi della vita spirituale di un uomo fossero organizzate all’interno della società romana.

Per gli antichi esistevano diverse condizioni di partenza relative alla condizione sociale di nascita, che passava di madre in figlio per eredità. Si poteva nascere schiavi, liberi o cittadini.

Lo schiavo poteva nascere tale o divenirlo per debiti o perché prigioniero di guerra o altro ancora. Egli doveva riscattare la propria libertà col lavoro dopo essere stato al servizio di una famiglia di cittadini benestanti (tanto da potersi permettere di comprare uno schiavo). Presso di loro imparava la lingua e gli usi latini ed il valore del poco denaro che riusciva ad accumulare, col quale poi avrebbe potuto comprare la propria libertà, raggiunta una certa somma. Gli schiavi divenuti liberi erano detti liberti e si integravano immediatamente e perfettamente nella società, meglio di tanti figli di cittadini liberi e benestanti abituati ad avere tutto ed a volte inetti a procurarsi beni e ricchezze. Noti sono i nomi di moltissimi liberti divenuti abili commercianti ed arricchitisi fino a divenire cavalieri della Res Publica Romana. Il rito di emancipazione dello schiavo era una vera e propria iniziazione, una immissione alla condizione di civis.

Gli uomini liberi erano i non cittadini abitanti nei confini dell’impero. Essi erano considerati ingenui (ossia senza il genio)[1], generalmente avevano origini straniere e quindi praticavano culti differenti da quelli romani.

Il civis. Al compimento del diciassettesimo anno d’età i giovani romani abbandonavano la toga puerile per assumere quella virile; essi divenivano viri anzichè homines. Vir è colui che incarna la vis, ossia la forza, homo è colui che è fatto d’humus, di fango. Dalla vis del vir o della virgo proviene la virtus. Con l’assunzione dello stato di cittadinanza l’uomo otteneva diritti politici e religiosi. Tra quelli religiosi vi era la possibilità di poter praticare in privato per il proprio sviluppo spirituale, e dunque l’uomo diveniva sacerdote di se stesso. Se viveva nell’ambito della famiglia d’origine era comunque soggetto all’autorità paterna, anche in ambito religioso, qualora andasse a vivere da solo o costituisse un’altra famiglia, in tal caso diveniva suo iure pater familias. Il cives era un gentile, ossia un uomo che conosceva le qualità del proprio genio. Oggigiorno chi si definisce pagano anziché gentile deve ancora riuscire a liberarsi da una nomenclatura stereotipata che nasceva con fine dispregiativo nella tarda antichità, sebbene è da riconoscersi che il pagano d’oggi s’è fatto libero dalla schiavitù schematica del mosaico sociale contemporaneo e che a volte vuol rimarcare una purezza “rustica” e naturale; dunque egli è un uomo che tende alla libertà, ma ancora appartiene alla categoria degli ingenui perché non conosce la condizione qualitativa del proprio Nume. Tale cognizione si raggiunge con lo sviluppo di una determinata presa di coscienza, che è matematicamente consequenziale ad uno specifico stadio di purificazione interiore.

L’iniziazione. E’ una condizione d’incominciamento, è l’avvio ad una nuova fase interiore che sopraggiunge in sostituzione ad una condizione animica, intellettiva e spirituale precedente e superata. Le catene della sapienza sacerdotale antica, ricche di esperienze tradizionali millenarie, identificarono sette passaggi fondamentali, ai quali attribuirono delle nomenclature utili a definire il livello evolutivo di un individuo. Particolari esperienze, uguali per tutti, segnano il superamento di determinate porte. I pontefici ed i maestri iniziatori conoscono bene codeste esperienze ch’essi stessi hanno vissuto, e pertanto riconoscono il conseguito sviluppo di un neofita da un determinato evento, ch’essi ovviamente hanno già vissuto, e non da preferenze individuali. Dunque l’accattivarsi le attenzioni di un maestro è cosa inutile nella via tradizionale; mentre risulta importante l’azione pratica, poiché essa porta allo sviluppo spirituale, al rapporto col Nume e a manifestazioni concrete che avanzano l’uomo in stadi e condizioni superiori. Vi sono diversi tipi di iniziazione. Vi è l’avviamento alla via spirituale, che per intenderci corrisponde al battesimo nel cristianesimo o all’assunzione della toga virile nella tradizione romana. Vi è poi l’iniziazione sacerdotale che consiste nell’accesso al tempio. In tutte le tradizioni il percorso iniziatico è suddiviso in due fasi principali: la prima lunare e la seconda solare.

L’iniziazione lunare. I neofiti sono sempre in condizione lunare. Essi incominciano il percorso ascoltando per imparare, si fanno lune K del proprio maestro A che li illumina e li accresce con la propria sapienza così come i petali della rosa mistica contornano il centro del fiore. Chi ama il suo maestro in maniera disinteressata ne assorbe mano a mano tutta la Luce fino a divenire una Luna piena e dunque terminare la prima fase. Per alcuni si tratta di pochi anni di lavoro, per altri di un’intera vita, ma la condizione raggiunta rimane impressionata nell’anima e dunque, in una nuova incarnazione, ci si ritroverà già più avanzati spiritualmente rispetto alla massa comune. La fase lunare impone una forma, necessaria al raggiungimento di una essenza sublimata, non può essere saltata né rinnegata, altrimenti si giungerebbe alla pazzia. Chi vuole comprendere l’essenza delle cose deve prima analizzarne la forma.  L’ascolto è importantissimo per chi vuole imparare: Pitagora obbligava i suoi discepoli ad anni di silenzio prima d’iniziarli alla matematica apollinea. Apuleio viene prima iniziato ai misteri isiaci e successivamente a quelli osiridei. Così nel calendario romano, perpetuo ripetersi del mito, prima si svolgono le feste sacre a Giunone (novilunio e primo quarto di luna) e poi quelle a Giove (plenilunio).

Il discepolo perfetto è ricettivo, perché come egli ha la funzione di ricevere la Luce del Sole per illuminare il buio mentale che lo circonda ed essere fonte d’aiuto per le persone comuni non iniziate, dando ad essi consigli saggi e ponderati per quanto gli sia possibile, mai profanando gli insegnamenti ricevuti ma riflettendo l’amore del suo insegnante alla società.

Egli accetta le critiche e lavora costruttivamente abbattendo l’accidia spirituale, soltanto così potrà accedere ad una condizione superiore. Gli aspiranti dervisci che giungevano alla moschea di Mevlana, per quella filosofia esoterica islamica[2] che tanto prende dalla sapienza teologica antica, dovevano abbattere il proprio ego lavorando per mesi presso i forni del santuario dalla prima mattina, per poi distribuire pane ai poveri mendicanti che affamati andavano a chiedere l’elemosina presso il tempio di sapienza. Non si può raggiungere una volontà di potenza senza aver prima abbattuto il desiderio d’inedia insito nel seme dei piaceri animici oscuri nutriti dai fantasmi di concupiscenza. Così non possono aprirsi le porte del tempio a coloro che non abbiano abbattuto la cattiveria a favore della giustizia e della bontà. Le iniziazioni antiche non erano per i poveri di spirito, ma premiavano quei mendicanti d’ignea sapienza, che lavoravano per rendersi in grado di ricevere i raggi di un caloroso amore migliorativo.

L’iniziazione solare. La fase solare succede a quella lunare. Qui avviene il superamento delle condizioni passionali e s’incomincia il cammino per la propria realizzazione spirituale. Le virtù della Pietas vengono incarnate per raggiungere la condizione di Sole splendente. La conoscenza acquisita nella fase pregressa permette di rinascere come il Sole fanciullo d’inverno: egli sì è un Sole, ma ancora debole e piccolo ed incapace di portare una rinnovata primavera. Egli deve crescere e riuscire ad innalzarsi sempre più nei cieli fino al raggiungimento eroico del sole estivo e divenire dunque un magister, individuo creante per mezzo d’una energia magnetica ch’egli sviluppa per generare luce intellettuale. Come Ercole, Ulisse, Perseo e gli altri innumerevoli eroi della mitologia greco-romana dovrà compiere grandi opere per realizzare la quadratura del cerchio, ossia l’ordinamento equilibrato della propria interiorità. La parola dell’iniziato solare è sempre più coscienziosa, poiché conosce l’importanza del verbum, sempre più rada, poiché quando il Sole rinasce è festa d’Angerona, la domina silentii. Nella Magna Grecia pitagorica i matematici erano addentrati ai misteri apollinei. I Pontefici Romani in epoca imperiale assumevano come divinità tutelare un Nume Solare, così Augusto scelse Apollo, Nerone il Sole, Decio preferì Mithra ed Aureliano rinnovò il culto del Sole Invitto. Degli iniziati antichi pochissimi parlano di come si sviluppa il percorso solare: Apuleio sottolinea l’impossibilità di esprimere la meraviglia dei misteri osiridei, i pitagorici tramandano le regole degli acusmatici, ma evitano di menzionare quelle dei matematici, e così via. Essi infatti comprendono che la Verità è un’intelligenza che tutela se stessa svelandosi solamente ai silenziosi meritevoli, così Macrobio sottolinea che la spiegazione reale dei miti e l’accenno ai loro misteri, corrisponda al mettere le dee della Sapienza per strada, obbligandole a prostituirsi perché tutti possano averle. Per rispetto della meritocrazia sacra gli iniziati ai misteri non profanano il loro sapere. Potremmo aggiungere una considerazione importante: se la Verità è un’intelligenza che tutela se stessa, non svelandosi mai ai chiacchieroni, allora non può esistere la sua profanazione. Ma molti usano elargire intuizioni di piccoli frammenti della verità per sentirsi importanti e considerati, essi fanno un gesto d’orgoglio al quale segue sempre la punizione da parte del proprio Genio, che più non suggerisce loro la giusta visione delle cose. Questi sono piccoli profanatori, imbroglioni che vanno a caccia d’ingenui, soggetti che mai arrivano all’iniziazione solare. Cattivi sono i profanatori di pratiche interne del tempio, che compiono un gesto con l’intento di mettere in difficoltà la sapienza sacerdotale, ma pure quelli, fondamentalmente, non valgono nulla, poiché le pratiche sapienziali reali si trasmettono soltanto per via orale e per immagini, e nessuno che le conosca le spiega ad un altro. Infatti il processo sapienziale misterico non avviene per insegnamento, ma per riconoscimento: il maestro A da le pratiche, così come il sole emana il raggio di Luce portatore di calore ed energia, il discepolo K mette in pratica il rito e quando ottiene è perché ne è meritevole; quand’egli parla colla sua guida e spiega d’aver compreso cosa fare per realizzare il mistero, il maestro A semplicemente gli da conferma o meno su quanto ha riferito. Al limite gli da qualche perla di saggezza per aiutarlo, sicchè se c’è pulizia e rettitudine nell’allievo, quelli riceverà dal suo Nume la giusta indicazione per la conquista dell’agognato premio. Da ciò si desume che non può esistere una pratica scritta che tramandi un mistero, e che ogni pratica profanata sia un falso deviante dalla Veritas.

Il compito del maestro è quello di amare, dare il mezzo, valutare e riconoscere i progressi dell’allievo.

Purtroppo oggigiorno ignavia ed accidia imperano, motivo per il quale il sistema sapienziale del tempio antico trova difficoltà a ripresentarsi al volgo: è infatti questa un’epoca malata, ove tutto è dovuto e nulla è da conquistarsi, dove il maestro è messo in dubbio e criticato perché tralascia di compiere gli oneri dei suoi scolari, è questo il tempo di porci che s’abbuffano di perle solo per soddisfare il piacere istintivo d’ingoiare, eppure è questo il momento per gli eroi. Ma chi è eroe oggi? E’ colui il quale incarna con fatica la pietas, il corpo dei valori virtuosi, che s’impegna a trasformarsi da homo in vir per agire in maniera volitiva per il ripristino di un corretto sistema spirituale meritocratico, al quale necessariamente conseguirà un rinnovato ordine sociale, abbattimento della politica passionale a favore dell’impegno sano e corretto nei confronti della società.

Altre iniziazioni. Bisogna tenere presente che l’iniziazione consiste, fondamentalmente, al compimento di un gesto per passare da una precedente condizione individuale ad una nuova presa di coscienza.  Pertanto è iniziazione non solo quella templare, ma anche quella alla pratica rituale domestica (appunto l’assunzione della toga virile), è iniziazione alla vita erotica il primo rapporto sessuale, è iniziazione alla vita coniugale il matrimonio e così via. Corrispondendo ogni divinità ad una forza identificata nella natura, possono esistere differenti iniziazioni a diversi culti (terapeutici, cereali, dionisiaci etc.) utili a prendere coscienza di come quella specifica forza, definita divina, operi nella Natura. Così a Roma esistevano diversi collegi iniziatici, da quello augurale a quello arvale, ove gli addentrati divenivano esperti nella gestione di specifiche forze. Così le matrone, ad esempio, oltre all’accesso ad una nuova vita con la contrazione d’un matrimonio, venivano iniziate ai misteri di Bona Dia perché imparassero a gestire le energie sacre che si sviluppano nella realtà familiare, per svolgere serenamente ed al meglio la propria funzione. Così il legionario veniva iniziato al culto marziale della legione (che si sviluppava attorno le sacre insegne) ecc. Tutte queste altre iniziazioni, che si svolgevano negli appositi templi preposti, erano “specializzazioni” relative alle qualità geniali dell’individuo, esse non interferivano con il percorso iniziatico avviatosi con il passaggio alla condizione gentile, bensì l’arricchivano.

Pratica, iniziazione e rapporto con l’iniziatore. E’ possibile praticare la tradizione romana al giorno d’oggi? Certamente. Esistono varie associazioni, in Italia e all’estero, che si occupano di tradizione romana. Sta all’individuo il compito di esplorare e conoscere, fin quando non trova l’ambiente ed i compagni adatti a lui. Certamente gli uomini onesti e pii si accompagneranno a quelli come loro; mentre furfanti, imbroglioni, diffamatori ed improvvisati tradizionalisti attrarranno e terranno con se ingenui ed altri simili. Per il principio aristotelico “similia similibus” ognuno è attratto ed attrae gente simile a se. Chi dentro se stesso è evoluto, s’avvicinerà a gente evoluta, chi è involuto troverà nella sua ricerca gente involuta e s’assocerà a quella, talvolta disprezzando i gruppi validi solamente per invidia. Oro chiama oro, l’argento è attratto dall’oro perché prossimo a lui nella scala dei valori e migliore, piombo chiama piombo ed a volte disprezza l’oro perché irraggiungibile alla sua condizione attuale.  Quando si entra in un gruppo umano, lo si frequenta, quando si percepisce una sincera sintonia con i suoi membri, a tutti gli effetti si sta vivendo, per quanto blanda, un’esperienza iniziatica: s’incomincia a pensare con una nuova forma mentis e ci si approccia al sacro in base agli insegnamenti che si ricevono. Ma come si può comprendere se quelle nozioni siano corrette o meno? Purtroppo in giro è facile incontrare fanfaroni che s’improvvisano sacerdoti di grande esperienza. Il primo elemento da analizzare è se il gruppo sia realmente coeso o meno. La seconda cosa da guardare è la reale salubrità mentale dei suoi membri: se essi sono un gruppo di matti eterogenei, squilibrati anche nell’approccio al dialogo, che neppure riescono a rispettare la forma della lingua corrente, bene guardatevi da quelli e preparatevi ad una nobile fuga, alla maniera del rex sacrorum al 24 febbraio. Quando invece incontrate gente la cui pulizia si percepisce da lontano, la cui aurea vi rassicura, la cui sapienza vi pare acquisita dall’esperienza anziché dalla lettura, allora accostatevi ieraticamente, come lo si fa presso gli altari; comportatevi piamente, come se stesse dialogando con un dio occulto, e verificate se queste persone siano una corrente che si comporta con rettitudine e giustizia tra di loro, che siano gente ch’evita i pettegolezzi ed il parlar male d’altri gruppi o persone, e se nei vostri confronti saranno retti, bhè allora coltivatene una sincera amicizia ed incominciate a distinguere i metalli preziosi da quelli ignobili. Attenti a non approfittare delle persone giuste o preziose ed evitate cattiverie ed ignominie, altrimenti quelli vi puniranno occultandovi la loro luce e non dandovi mai più la benché minima considerazione.

Seppure abbiamo spiegato che il discepolo è Luna K di un Maestro A è bene mettere in chiaro alcune cose. Quando si frequenta un ambiente umano non si è costretti ad essere ricettivi alla guida spirituale di quel gruppo, bensì ci si deve accostare in maniera libera e pia (ovvero con buone intenzioni). Quando un individuo pensa di aver trovato il Sole adatto a lui, allora lì può liberamente scegliere di seguire i suoi insegnamenti, se poi li si reputa validi, sempre liberamente, può scegliersi d’intraprendere la via del discepolato. E’ come quando, raggiunta la maturità, alcuni scelgono d’iscriversi all’università; prima si riflette su ciò che si vuole divenire: un ingegnere, un medico, un biologo, un geologo ecc. Quindi si visitano gli atenei dove sia presente la facoltà selezionata, così infine ci si iscrive e s’incominciano a frequentare i corsi. Durante il corso di studi, dove l’allievo và per imparare e non per insegnare, si sceglie il docente da seguire e dunque la materia in cui laurearsi. Durante la tesi l’allievo è completamente Luna del suo maestro, che gli permetterà di divenire ciò che tanto si desidera e per cui si è molto studiato. Si laureano col massimo dei voti quelli che sanno ascoltare e ricevere gli insegnamenti del loro docente. Così è nel campo tradizionale, col superamento delle ingiustizie umane (raccomandazioni e nepotismo) poiché gli iniziati alla Sapienza del Tempio non giudicano, ma valutano e riconoscono i giudizi sentenziati dagli dei. Alcune persone, accostandosi alla Tradizione, s’arrogano il diritto di mettere in discussione la regole tradizionali che per millenni sono state praticate nelle caste sacerdotali di tutto il mondo e di tutte le religioni; essi inventano religioni più antiche, elaborando interpretazioni rocambolesche e viziate faziosamente, solamente per dare spazio al proprio orgoglio. Quegli individui, che si sentono più saggi di tutti i pontefici antichi, degli anziani sacerdoti d’ogni epoca, già si ergono al seggio della cattedra, pronti ad insegnare agli altri, senza neppure essersi mai iscritti all’università della saggezza. Non si può pretendere d’insegnare storia delle religioni alla facoltà di lettere senza neppure averne conseguito il titolo di studio. Una materia può insegnarsi solamente dopo averla imparata ed applicata nella propria vita. Nuove intuizioni e nuove conoscenze possono sempre raggiungersi, ma prima è sempre necessario imparare la basi della scienza e la sua storia, altrimenti non potrà mai esservi progresso.

Quando si decide di accedere alle pratiche di una collettività, innanzitutto bisogna riuscire ad entrarne a far parte, così come nell’antica Roma la cittadinanza era un diritto che si conquistava. Quando poi si raggiunge ed ottiene l’addentramento è bene cercare d’essere coerenti alla scelta fatta e cercare di seguire gli insegnamenti del centro che si è scelto. A volte dopo un po’ di tempo ci si può rendere conto d’aver sbagliato via o di preferirne maggiormente un’altra, così come molti studenti al secondo o terzo anno di corso decidono di cambiare facoltà e di fare nuovi studi. Ciò è lecito, l’importante è saper coltivare sempre la virtù dentro se stessi, ed anche quando si cambia via lo si deve fare con stile e non in maniera bifolca, altrimenti il senso dispregiativo della parola “pagano”[3] prende forma a discapito del valore di resistenza, coerenza e virtù dell’abitante del pagus.

 

Come praticare? Molte persone si costruiscono larari ove vivere la propria spiritualità più profonda, ma li profanano costantemente inviandone le immagini in giro per la rete o mostrandoli ad ogni visitatore della propria casa, quasi dovessero iniziarli ad arcani misteri. In tutto ciò vi è solamente un senso d’orgoglio che ricerca l’approvazione altrui. Per ciò che riguarda la pratica vera e propria ci si arrangia a scaricare preghiere dalla rete, e riesumarle da vecchi testi ed altro ancora. Si pratica senza preparazione, si vedono i desideri realizzati e non si comprende che questi svaniscono presto perché s’è mal lavorato, così pure disgrazie che vengono a seguire s’attribuiscono a forze malvagie che si scagliano contro di noi, senza comprendere che esse sono state generate dal praticare senza preparazione. Castità, digiuno e preghiera sono le tre regole tradizionali. Sia essa di mezza giornata o di un intero giorno, ma deve farsi. Non si opera a stomaco pieno e non si usano orazioni a caso. E’ sempre bene avere un riferimento sano che dia dei consigli.

Importantissimo! Chi vuol seguire una via spirituale lo deve fare per lo spirito, non per ottenere beni materiali. E’ bene pregare per il benessere delle persone che amiamo, per la salute, per la Luce intellettuale. Nella vita affrontiamo molte difficoltà ed afflitti siamo portati ad accostarci agli dei. Ciò è giusto. E’ cosa saggia chiedere agli dei di essere purificati dalle malvagità, è bene pregare il proprio Nume perché ci dia la forza di compiere con virtù le imprese della nostra vita e non pregarlo perché Lui le risolva per noi. Il gentile utilizza la vis per essere vir ,uomo e virgo la donna. L’uomo romano prende il controllo della propria vita, è lui il fautore del proprio destino, non gli astri. Questa forza interiore viene dal sacro fuoco intimo dello spirito, che dà l’energia e la luce necessarie ad una vita soddisfacente.

 

Rito al proprio Genio.

Per chi voglia realmente approcciarsi alla pratica tradizionale suggeriamo quanto segue.

Si preghi il proprio Nume, castamente, puramente. Non è necessario pregare misticamente tutti i giorni a tutte le ore. E’ più utile operare bene e raramente che spesso e male. Ci si astenga dai piaceri venerei e dalle carni prima di praticare. Si tralasci d’usare riti dei quali non si conosce realmente l’uso (quello infatti si conquista solo nel tempio). Suggeriamo l’inno orfico al proprio Genio per avere da lui l’aiuto di un buon consiglio e la forza d’affrontare i momenti difficili:

 

 

 

 

profumo del Genio

incenso

Invoco il Genio, la grande guida che dà tremore,

Mite Giove, generatore di tutte le cose, che dà vita ai mortali.

Grande Giove, sempre in movimento, che non lascia impuniti, re del tutto,

dispensatore di ricchezza, quando dovizioso entra nella casa,

quando è contrario raggela la vita dei mortali dalle molte pene:

in te infatti sono le chiavi della gioia e del dolore.

E dunque beato, santo, cacciando i dolori che causano molti lamenti,

quanti mandano la distruzione della vita per tutta la terra,

concedi uno scopo di vita glorioso, dolce e buono.

 

 

Riti di Catarsi.

Chi voglia realmente evolversi e trovare la sua giusta via dovrà purificarsi.

Gli antichi romani osservavano scrupolosamente le tre fasi principali della Luna: Kalendae, Nonae e Idi. Novilunio, primo quarto e plenilunio. In queste tre date si eseguano abbondanti lavande del corpo, ci si abluzioni al mattino ed alla sera, nella giornata si evitino i cibi provenienti da animali morti e si prediligano quelli vitali, come frutta e verdure. Al mattino si offrano incenso e si pongano fiori sull’altare del Larario, purchè ci si mantenga casti prima d’accostarvisi. Chi vorrà potrà recitare preghiere a Giunone alle Kalendae ed alle Nonae, mentre Giove sarà pregato alle Idi. Si onorino gli dei, non gli si chieda nulla per evitare di sporcarsi col desiderare. Infatti il desiderio distrugge la Volontà, che è volo dell’ente.

Ai solstizi ed agli equinozi si onori il Sole, evitando di cibarsi d’animali morti nel corso della giornata, ci si mantenga casti e si preghi il Nume Solare perché ci purifichi dai nostri mali e ci indichi la via della Salus.

 

Minervalia 19-24 marzo.

Se conoscete persone pie, eticamente sane e colme di saggezza frequentatele. Praticate e soprattutto studiate. Se volete meditare non perdetevi in esercizi mentali inutili, ma seguite gli insegnamenti pitagorici espressi nei detti aurei. Il pensiero ben lavorato è Mens sana in corpore sano e permette un migliore effetto nei riti catartici. Se volete realmente evolvervi spiritualmente, ai Minervalia pregate Minerva, colei che sostiene gli eroi che s’impegnano della via di ritorno alla monade; Eseguite dal 18 al 25 marzo regime alimentare vegetariano, castità assoluta e pregate ogni mattina la dea della Sapienza, dal 19 al 24, affinchè vi indichi la via per evolvervi nelle virtù della pietas. I buoni e puri avranno responso, e bene lo riconosceranno per azione divina. I malevoli saranno sviati o, nel migliore dei casi, ignorati.

 

Codeste perle saranno certamente utili ai puri, inutili agli empi.

 

Studio. Per approcciarsi bene alla via tradizionale romana suggeriamo lo studio dei classici greci e latini. In particolar modo si prediligano i neoplatonici. Un semplice manuale di storia della religione romana può essere utile per conoscere la basi più elementari del culto antico. Agli scritti sacri di Iliade, Odissea, Eneide, Bucoliche, Georgiche, Teogonia, Inni Omerici ed Inni Orfici si accompagnino anche quelli di Flavio Claudio Giuliano imperatore, infamemente detto l’apostata; ecco una lista di alcuni testi suggeriti:

 

L’arte di Ascoltare,                  Plutarco

Dialoghi Delphici,                    Plutarco

Discorso sulla verità,                Celso

L’antro delle ninfe,                               Porfirio

Sugli dei e il Cosmo,                            Salustio

Saturnalia,                                           Macrobio

Somnium Scipionis,                             Cicerone

Commento al Somnium Scipionis,        Macrobio

L’asino d’oro,                                      Apuleio.

 

Tra gli autori delle epoche moderne invitiamo allo studio delle opere di Giordano Bruno e dei neoplatonici, notevole “La filosofia occulta o la magia” di Agrippa per i continui rimandi a profonde cognizioni teologiche antiche.

 

Dei tanti autori contemporanei che cercano di studiare e comprendere il mondo romano, trovo metodologicamente geniale e perfetta l’opera di Enrico Montanari “Roma. Momenti di una presa di coscienza culturale”, pregna di un razionalismo accademico che si sublima per l’approccio matematico all’analisi degli eventi storici, fino ad identificare i meccanismi dell’azione metafisica applicata dai romani nella seconda guerra punica.

Visita la pagina dell’ente religioso Pietas – Comunità Gentile

 

[1] La distinzione tra ingenui e gentili è ben spiegata da Elio Ermete nel testo “Aspetti esoterici nella tradizione romana gentile”.

[2] Il sufismo.

[3] Pagano sta per villico, ignorante, bifolco. Venne utilizzato dai cristiani contro i gentili per svilirne la sapienza e perché i centri di campagna furono quelli più resistenti alla forzata conversione cristiana.

Appello alla tolleranza ed alla non violenza tra le parti in Italia

Appello alla tolleranza ed alla non violenza tra le parti in Italia.
Con cortese richiesta di condivisione

Il pontificato massimo della Comunità Gentile “Pietas” esprime preoccupazione sulla attuale situazione di discussione politica in Italia. Premesso che la nostra comunità non si esprime sui fatti politici, in quanto già esistono associazioni partitiche, civiche ed enti preposti alla discussione delle politiche del paese, vi è comunque da ricordare che l’approccio alle relazioni interpersonali, fondato sullo scambio di idee ed emozioni provenienti spesso dall’anima e dallo spirito, appartiene all’ambito di un modo di vivere spirituale. Il perseguire comportamenti fondati sulla tolleranza, sul rispetto reciproco, sull’amore e sulla pace, rientrano a pieno titolo in un ambito di etica spirituale.

Nonostante il silenzio dei principali enti religiosi in Italia, è nostro dovere segnalare quanto segue:

  • abbiamo assistito a delle violenze che ci hanno messo in preoccupazione; in particolar modo ci riferiamo ad alcuni eventi accaduti in occasione della manifestazione dei lavoratori a Trieste, avvenuti in data 18 ottobre 2021, durante lo sgombero della manifestazione di sciopero dei portuali, la quale aveva attirato attenzioni da tutta Italia, tanto da formare una folla con persone fragili da dover tutelare sempre, come donne, anziani e bambini.
  • Abbiamo visto i video postati in diretta sui social, dai tanti presenti, che volevano testimoniare lo sciopero in questione; abbiamo preso visione di tante testimonianze giornalistiche, tra cui quelle della dottoressa Raffaella Regoli, che sia ha condiviso video sui social, sia ha realizzato un servizio per il programma televisivo “Fuori dal coro”, andato in onda su rete 4.

Da tutto ciò abbiamo preso visione, con grande sgomento e sconforto, di attività mal gestite, che hanno prodotto violenze su donne incinte, persone inermi sedute a pregare ed una grave messa in rischio della sicurezza di anziani e bambini.

Dalla presente fotografia non si riesce a comprendere perché siano stati usati cannoni ad acqua su manifestanti seduti a terra a pregare. Nessuno dei responsabili di tale azione ha considerato che molti anziani, presenti in piazza, sarebbero potuti cadere a terra perché colpiti dal getto d’acqua o semplicemente scivolando sul bagnato, con conseguenze molto rischiose per la loro salute!

In quest’altra fotografia vediamo che i manifestanti non hanno reagito in malo modo, ma sono rimasti seduti a pregare ed a sottolineare il loro diritto costituzionale a manifestare e scioperare. Si può notare a terra l’acqua e loro bagnati, al freddo d’ottobre, che si stringono per mano e tengono a freno ogni istinto a reagire, dimostrando una grande forza d’animo e di spirito.

Un signore avanti negli anni, in testa al corteo, si è sentito poco bene prima che iniziasse l’avanzata delle forze dell’ordine, ed anziché vedersi soccorrere, come prevede la legge italiana che anzi punisce penalmente l’omesso soccorso ad una persona che sta male, s’è visto caricare dalla polizia in assetto antisommossa, nonostante non vi fosse una sommossa, ma semplicemente una folla di persone sedute!

L’ordine di carica è stato dato verso tutti, persino contro questa donna incinta, che manifestava pacificamente ma s’è vista spaccare il naso, nonostante il suo stato interessante ed il rischio che avrebbe potuto portare una manganellata in faccia, alla sua gravidanza.

In prossimità del corteo vi era una scuola, dalla quale stavano uscendo uomini e donne con bambini, che si sono visti precipitare una carica di lacrimogeni. Fatto gravissimo è che sono stati denunciati casi di bambini di pochi mesi cui è finito il proiettile lacrimogeno nella culla con loro all’interno: immaginate cosa sarebbe potuto accadere se il proiettile avesse colpito accidentalmente l’occhio del bambino! Tutto ciò viola una serie di norme internazionali sulla tutela dei minori!

In questa foto si vedono bambini che scappano dopo essere stati bersagliati dai lacrimogeni. Abbiamo preso visione di video di cittadini e giornalisti che segnalavano alle forze dell’ordine di non lanciare i fumogeni in quella zona, perché lì vi era una scuola! Essi sono rimasti inascoltati.

Tutto ciò ci preoccupa.

Stiamo notando, dai social alla televisione, che sempre più frequentemente, pur di affermare la propria posizione, si scade facilmente nella menzogna: abbiamo letto articoli di giornali che parlavano di manifestanti violenti, quando invece avevamo visto i video in diretta di quella che è stata forse una delle manifestazioni più pacifiche mai viste in Italia. Vogliamo, in tale occasione, fare riferimento ad un valore etico importantissimo: la Verità. E’ un dovere di tutti gli abitanti di questo pianeta coltivare l’onestà: la verità per noi è vita e bene, mentre la menzogna è morte e male, infatti si suol dire che, ogni volta che un uomo mente, una parte del mondo muore.

Riflettendo su quanto accaduto in questi giorni, siamo rimasti interdetti nel vedere che è stato consentito a pregiudicati di assaltare la sede di un sindacato a Roma, aprendo i cordoni della polizia e lasciandoli passare,  mentre per  cittadini inermi, tra cui donne incinte, anziani, gente accovacciata a pregare e bambini, sono state applicate azioni violente.

Origini di questi squilibri stanno chiaramente nella intolleranza sul pensiero diverso dal proprio. In questo particolare momento storico, la popolazione italiana è divisa tra chi vede nel provvedimento del green pass uno strumento di tutela della salute della collettività e chi invece ne vede un mezzo di discriminazione sociale. Al di là delle posizioni che ogni persona scelga di prendere, è bene sottolineare che non debbono coltivarsi l’odio ed il disprezzo nei riguardi di coloro che la pensano diversamente. In quest’epoca stiamo assistendo alla perdita dello strumento del dialogo, oggetto utilissimo alla preservazione delle istituzioni più sane ed allo sviluppo della maturità degli individui. Pare che la società stia scadendo in una terribile immaturità collettiva, dove rabbie e sentimenti negativi repressi, vengano sfogati nelle discussioni tra le diverse fazioni.

I grandi filosofi gentili del mondo antico, come ad esempio il ben noto Platone, insegnano l’importanza del dialogo come strumento necessario al raggiungimento degli equilibri interpersonali e della crescita interiore degli individui. Tutto ciò si fonda su un confronto che ha lo scopo di raggiungere un punto medio comune tra le parti, un qualcosa che unisca e che metta in risalto elementi unanimamente condivisibili, raggiungibili grazie all’uso della ragione.

Oggigiorno, purtroppo, lo scopo del confronto tra due parti non è più il raggiungimento di un medio comune, bensì è decaduto nel tentativo di sopraffazione di una parte sull’altra: una ricerca di affermazione di se stessi e del proprio ego a discapito dell’interlocutore.  Questo tipo di cultura è pericolosa, perché non mira a risolvere le differenze e a cancellare i pregiudizi e gli odi, bensì li coltiva.

Tutto ciò può ulteriormente scadere nella crescita delle violenze cui abbiamo assistito nei giorni scorsi. Lanciamo un appello a tutta la popolazione ed alle istituzioni, affinché tutti quanti tornino a coltivare l’empatia, il dialogo, il rispetto umano e l’affetto che devono legare le persone, anche difronte a tutti quelli che la pensano diversamente da sé. Soltanto così potremo far rientrare la perdita di controllo delle proprie azioni e tornare a coltivare gli equilibri, fondamentali non solo per la crescita politica ed economica del paese, ma soprattutto per la crescita spirituale dei suoi abitanti.

Hermes Helios
(Giuseppe Barbera)
Pontifex Maximus Gentium Pietatis

Post Scriptum:

Volgiamo le nostre congratulazioni al comitato 15 ottobre, per la metodica pacifica delle loro manifestazioni e per i continui appella ai cittadini a manifestare in stile gandhiano, discostandosi così da ben altre forme di manifestazioni violente.

Ringraziamo la dottoressa Raffaella Regoli, giornalista per il programma televisivo Fuori dal Coro, di rete 4, per il consenso alla condivisione di immagini estrapolate dai suoi servizi. Altre immagini non estrapolate da essi, sono tratte dalla rete internet, tra quelle rese di pubblico dominio.

DALL’ARENA ALL’AGORÀ: PER UN’EDUCAZIONE ALLA PAROLA

Di tutte le cose che la natura umana ha in sé, certo nessuna è più divina della parola, soprattutto della parola che cerca di comprendere la divinità. E niente ha più efficacia nella conquista della felicità.

                                                                                                                                             (Plutarco, De Iside et Osiride)

 

Quando l’anima, non riuscendo più a tener dietro ai carri degli dèi nella contemplazione delle idee, cade, l’umidità di lei fa sì che, al suo contatto con la terra, si ritrovi interamente ricoperta di fango. In esso ella riposa, e sin dal concepimento ne fa un rivestimento, cercando di dargli forma. Per fare ciò, ella necessita di ricorrere al suo fuoco interiore, affinché cuocia il fango. Tuttavia, questo fuoco è inizialmente molto piccolo, e rischia anzi di essere travolto esso stesso dal fango: ha quindi bisogno di essere ravvivato per poter separare l’acqua dalla terra. Col respiro l’anima lo alimenta, ma non tanto da farlo crescere. Infatti, esso necessita di ulteriore nutrimento, e a tal scopo son plasmate le orecchie. Tuttavia, nella caduta anch’esse restano mischiate al fango. Proprio al fine di liberarle, gli uomini hanno sviluppato l’arte della parola e dell’ascolto. I buoni padri e i buoni educatori sono infatti coloro che trasmettono il calore del proprio fuoco interiore tramite la propria parola: dapprima modellano le orecchie, insegnando al giovane ad ascoltare; poi, attraverso di esse, svolgono come l’azione del mantice che soffia sul fuoco, facendolo ardere sempre di più, finché esso diviene tanto caldo e potente da asciugare e modellare il fango e poter a sua volta essere d’aiuto ad altri. E durante il tempo necessario a ciò, essi, come abili scultori, devono ora scalpellare qua, ora levigare e limare là, ora inumidire o asciugare, e in generale evitare ogni asprezza della forma, data da un asciugarsi incerto o troppo rapido, o un improvviso cedimento.

Coloro che non riescono a liberarsi, continuano invece a non poter sentire gli altri, e non fanno per questo altro che agitarsi e gridare, ostili a tutti e tutto, incapaci di comprendere alcunché, soprattutto la propria condizione, che credono sia la medesima per tutti, e non mirano così neanche a liberarsi. Peggio ancora coloro che finiscono sotto cattivi educatori: essi si ritrovano appesantiti dalle forme grottesche e orrende assunte dal fango fattosi solido, e finiscono col credere che la propria forma coincida realmente con quella del loro sarcofago. E quando giunga qualcuno a cercar di far vedere loro quale sia la reale condizione in cui versano, per spronarli a liberarsene, lo travolgono con aspre parole, lo insultano e ne fanno oggetto di scherno, cercando talvolta persino il confronto fisico. Rendono così il mondo un campo di battaglia, dovunque passino lasciano il deserto, e della propria vita fanno una schermaglia continua.

Abbiamo voluto iniziare il nostro intervento con questo racconto d’ispirazione mitologica, che prende le mosse da due miti platonici (quello della biga alata, riportato nel Fedro, e quello della caverna, tratto dalla Repubblica) al fine di introdurre la trattazione di uno dei mali, forse il principale, che affligge i nostri tempi: l’incapacità di ascoltare.

Nonostante, infatti, la nostra epoca sia spesso connotata come quella della comunicazione, ciò che si riscontra di continuo nell’esperienza quotidiana è invece una assoluta incomunicabilità. I punti d’incontro costituiti da piattaforme come i social network, ormai da tempo i principali (e oggi quasi unici) spazi di aggregazione e discussione pubblica (pur gestiti e regolati dall’arbitrio di privati, cosa che meriterebbe una trattazione a sé), somigliano sempre più ad arene che non ad agorà. Si parla spesso di dialogo, ma quel che si vede effettivamente è solo un’apposizione e opposizione di monologhi, finalizzata non certo a esercitare la ragione insieme all’interlocutore, bensì ad aver ragione dello stesso, individuato quale nemico in quanto non aderisce alla stessa posizione. Quando ci comportiamo in tale maniera, come afferma Plutarco, nel nostro discorso siamo guidati dallo «spirito di contesa e di litigio sui problemi», e adoperiamo le argomentazioni «come se calzassimo il cesto o un guantone da pugile, per scontrarci gli uni contro gli altri», provando «più gioia nel colpire e mettere giù l’avversario che nell’imparare o insegnare qualcosa»[1].

Il fatto che già nell’antichità se ne trattasse, ci dice come questo non sia certo un problema nuovo[2], per quanto possa aver raggiunto dimensioni e pervasività prima mai viste: è invece qualcosa di attinente all’essenza stessa dell’uomo e alla sua crescita, sia individuale che comunitaria. La parola, infatti, non è un semplice strumento, che sia per comunicare o per altro; non è un qualcosa di esterno che appartiene all’uomo, che questi possiede quasi fosse una vanga o una zappa. Il termine λόγος (lógos), deriva dal verbo λέγειν (leghein), il quale vuol dire, si, parlare e discorrere, ma il cui significato primario, a partire dalla radice -λεγ, è “raccogliere” e “radunare”, ma anche “scegliere”[3]. Non sarà certo superfluo rilevare qui come la stessa radice sia anche quella di lex[4], legge e di termini a essa collegati, come eleggere. Ciò che la parola lega dunque non sono solo le cose e le parole tra loro, ma innanzitutto gli uomini. Essa è ciò che lega gli uomini più di ogni cosa. Già nel momento stesso in cui la parola viene concepita, in essa è implicito tanto l’io che proferisce, quanto il tu a cui è rivolta e che lo accoglie. Ci dice ancora Plutarco, infatti:

 

I più […] sbagliano, perché si esercitano nell’arte del dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare, e pensano che per pronunciare un discorso ci sia bisogno di studio e di esercizio, ma che dell’ascolto, invece, possa trarre profitto anche chi vi si accosta in modo improvvisato. […] I bravi allevatori rendono sensibile al morso la bocca dei cavalli: così i bravi educatori rendono sensibili alle parole le orecchie dei ragazzi insegnando non a parlare molto, ma ad ascoltare molto.[…] E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola, perché siamo tenuti più ad ascoltare che a parlare.[5]

 

A una più attenta considerazione la prima che ci è necessaria tra queste attività, anche in ordine cronologico, nella nostra vita, è proprio quella dell’ascolto; ché altrimenti non impareremmo neanche a parlare. Anzi, a ben vedere, la prima, e condizione di tutte le altre, è la conquista del silenzio, cui soltanto segue la possibilità di dirigere attivamente (quindi per scelta) l’attenzione[6]. E probabilmente lo stesso linguaggio, come si può evincere dalla origine onomatopeica di moltissimi termini, non sarebbe mai nato, senza l’ascolto più attento di ogni lieve fruscio, del più flebile sibilo o scricchiolio, che richiede innanzitutto che l’uomo sappia ordinare e mettere a tacere il fluire confuso dei propri pensieri, il Polifemo (letteralmente “il rumoroso”, “colui dalle molte voci”) che risiede dentro di noi, e che col suo continuo vociare non ci consente serenità e ci allontana dalla coscienza, tenendoci prigionieri e terrorizzati all’interno della caverna e sbattendoci con forza, fino a far «sprizzare a terra il cervello»[7]. Ci sarebbe poi da chiedersi a che pro parlare se non si sapesse d’essere ascoltati e non si fosse disposti a propria volta a prestare ascolto. La situazione di oggi ne è una prova: parlare diventa un’attività sempre più rara. La “dissenteria verbale” (o verbosità) e le vicendevoli grida sono la norma, in una gara a chi alza di più la voce, con il risultato che a vincere è semplicemente chi dispone di altoparlanti in grado di sovrastare il rumore generale (se non anche, spesso, di aizzarlo, fomentarlo e dirigerlo). Si crea quindi un contesto in cui a prevalere è il più forte (leggasi il più ricco), non il migliore, e chi comanda lo fa non in virtù della concordia e della presenza di fini condivisi, di con-fini, rispetto ai quali si ritiene giusto ordinare la vita dei singoli e della città, ma piuttosto a causa della stasis di cui ci parla Platone[8], della inimicizia profonda che si scatena tra i simili e che dilania il corpo civile, fomentando la discordia e la «gravosa contesa», e quindi l’emergere di poteri tirannici fondati sull’odio e la paura che separano e isolano gli uomini. Non v’è tirannide in cui all’arroganza dei dominatori non corrisponda la viltà dei dominati. Ne Le Opere e i Giorni, Esiodo non a caso distingue due tipi o, per meglio dire, due diverse espressioni, di Contesa (Ἔρις), a seconda di come tale forza venga declinata all’interno dell’essere umano, e quali effetti generi[9]: la Buona Contesa è quella che spinge a gareggiare coi simili in virtù, esortando «anche il neghittoso al lavoro» e quindi a migliorarsi; quella cattiva «favorisce la guerra luttuosa e la discordia»[10]. Possiamo affermare che quando a prevalere è questa manifestazione di Eris, gli uomini non si riconoscono più tra loro. Ecco infatti la descrizione che Esiodo ci dà di quella che chiama età del ferro:

 

[…] e Zeus distruggerà anche questa stirpe di umani caduchi, quando ai nati biancheggeranno le tempie. Il padre non sarà simile ai figli, né i figli a lui; né l’ospite all’ospite o il compagno al compagno né il fratello sarà caro così come lo era prima. Non verranno onorati i genitori appena invecchiati, che verranno, al contrario, rimproverati con aspre parole[…]. Sciagurati! Che degli dei non hanno timore! Questa stirpe non vorrà ricambiare gli alimenti ai vecchi genitori; il diritto per loro sarà nella forza ed essi si distruggeranno a vicenda le città. Non onoreranno più il giusto, l’uomo leale e neppure il buono, ma daranno maggior onore all’apportatore di male e al violento; la giustizia risiederà nella forza delle mani; non vi sarà più pudore: il malvagio, con perfidi detti, danneggerà l’uomo migliore e v’aggiungerà il giuramento. La Gelosia malvagia, malèdica e dallo sguardo sinistro, s’accompagnerà con tutti i miseri umani.[11]

 

Notiamo qui come l’età del ferro consista sostanzialmente nel venir meno della sacralità di ogni legame e nella negazione di tutti i valori della pietas: Dei, Patria e Famiglia vengono totalmente disconosciuti, e ciò si lega in via diretta con la mancanza assoluta di giustizia e l’assenza del Diritto. In virtù di quanto visto finora, possiamo dire che ciò che viene meno in tale epoca è la linea della parola, di quel respiro che viene trasmesso da una generazione all’altra, passando per quelle porte dell’anima che sono le orecchie.

Il continuo rinnovarsi della tradizione dimostra che per millenni e millenni gli uomini sono stati in grado di ascoltarsi, che numerosissime generazioni sono state capaci di trasmettersi amore e conoscenza, o forse è più corretto dire che proprio per amore si sono tramandate la sapienza e hanno continuato a coltivarla e farla crescere. Dove cercheremo, infatti, la fonte del mito, se non nell’amore di un padre e di una madre che vogliono ardentemente che i figli crescano alla piena luce, che i loro occhi ne possano godere senza restarne feriti, senza fuggirla né temerla? Il μῦθος (mythos) è parola, ma come ci indica la sua stessa derivazione dal verbo μύειν (myein), il quale significa chiudersi, star serrati, principalmente riferito alla bocca e agli occhi (si pensi anche all’italiano muto), è parola che va ascoltata, verso la quale ci mettiamo attivamente all’ascolto, rimanendo in silenzio e concentrandoci unicamente su di essa. È una parola che dobbiamo accogliere e coltivare al nostro interno[12]. Come quando, raccolti attorno al fuoco, ascoltiamo i racconti. Vediamo così come emerga l’altro significato, sicuramente più conosciuto, di mito: narrazione e racconto. E nel suo stimolarci all’ascolto, il mito ci indica al contempo la via della riflessione, della considerazione attenta dei suoi elementi, alla maturazione interiore delle giuste domande, prima ancora che la ricerca delle risposte. Su tale modello possiamo vedere anche scuole come quella pitagorica, la cui prima tappa consiste in un periodo di silenzio assoluto, dedicato al solo ascolto del maestro e dei suoi insegnamenti, gli ἀκούσματα (akúsmata, letteralmente, le cose udite)[13]. L’iniziato è poi detto μύστης (mystes), cioè colui che osserva il silenzio iniziatico[14] ed è in grado di udire la voce del suo δαίμων (dáimon), il genius latino. Tornando al mito, lo stesso poeta, prima di cantare le gesta eroiche e divine che ne sono oggetto, inizia la propria opera invocando le Muse. Il suo ruolo diviene quindi quello di esprimere quanto ascoltato dalla divinità in maniera intelligibile agli uomini. La mitologia trova la sua radice nella volontà del poeta di rendere il mito accessibile traendone dei logoi, scegliendo in modo che siano adatti all’uditorio, rivelando gradualmente il legame intimo tra tutte le cose e dando tutti gli strumenti per  giungere alla Ἀλήθεια (Alétheia), cioè al dis-velamento, la rimozione dell’oblio[15].

È però frequente che molti non riescano ad andar molto oltre il significato letterale e, nella fretta di emettere un giudizio, anziché interrogare se stessi bollino come fantasticherie, invenzioni e finanche menzogne, tali racconti. Da cui l’accostamento del mito a qualcosa di falso.

Le considerazioni finora fatte, per quanto brevi, ci consentono di comprendere che il verbo parlare ha una coniugazione particolare, in cui la prima e la seconda persona procedono assieme e in maniera complementare: io parlo, tu ascolti; io ascolto, tu parli. È così che nasce il dialogo: dall’alternarsi degli interlocutori nella coniugazione del parlare. O, ancor meglio, dalla coniugazione degli interlocutori nel parlare. Infatti, tramite il lógos, le anime sono come unite in matrimonio, e questo, se condotto onestamente, consente a ciascuna di esse di accogliere i migliori semi e partorire nuovi e ottimi frutti. La parola è un ponte verso l’altro, ma anche una porta verso se stessi, e dunque qualcosa che va profondamente meditato e ponderato, sia quando è proferita che (e ancor più) quando viene accolta. Se non facciamo ciò, i nostri discorsi non saranno altro che parti di vento infecondi, come dice Plutarco[16]. Saremo invero noi a diventare sterili, portatori di un lógos vuoto, la cui continua emissione è quasi un tentativo di sopperire alla sua mancanza di concretezza, di incisività sul mondo. Ci sarà inoltre estremamente difficile non solo riconoscere e trarre profitto da un discorso utile, ma anche smascherare quelli falsi e dannosi, dai quali saremo facilmente ingannati e traviati.

Se si vuole essere realmente liberi, bisogna quindi, seguendo l’esempio degli antichi, coltivare se stessi anzitutto nel silenzio e nella pratica dell’ascolto, deponendo la presunzione e la superbia, così da disarmare il nostro più temibile carceriere: l’ignoranza. Potremo allora sciogliere i vincoli che ci tengono relegati nel fondo della caverna e iniziare l’ascesa per uscirne.

 

BIBLIOGRAFIA

 

  • Cicerone, Delle Leggi, a cura di A. Resta Barrile, Zanichelli, Bologna, 1972;
  • Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano, 2006;
  • Esiodo, Le Opere e i Giorni, a cura di S. Rizzo, Rizzoli, Milano, 1979;
  • Omero, Odissea, trad. it. G. Aurelio Privitera, Fondazione Lorenzo Valla, 1983;
  • Platone, Repubblica, a cura di G. Lozza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1990;
  • Plotino, Enneadi, a cura di G. Faggin, Rusconi, Milano, 1992;
  • Plutarco, Tutti i Moralia, a cura di E. Lelli e G. Pisani, Bompiani, Milano, 2017;
  • Plutarco, L’arte di saper ascoltare, a cura di M. Scafidi Abbate, Newton Compton Editori, 2006.

 

[1]Plutarco, Come constatare i propri progressi nella virtù, 80b, trad.it Giulio Pisani, in Tutti i Moralia, Bompiani, Milano, 2017.

[2]Sempre che ci siano problemi realmente nuovi, e non piuttosto modi diversi di guardarvi.

[3]Cfr. https://www.etymonline.com/word/*leg- . Si veda anche la voce Logos in Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Milano, 2006, vol.7, pp. 6756-6767. Ne citiamo qui solo un estratto: «la radice – λεγ – è la medesima per entrambi [λόγος e  λέγειν. n.d.a.], e tuttavia il significato primario di λέγειν non è “dire”, bensì “raccogliere”, “radunare”, epperò “scegliere”, e di seguito “enumerare”, “contare”; solo alla fine è “narrare”, “parlare”, “dire”[…]. Evidentemente il “dire” è una forma eminente dello scegliere e del raccogliere».

[4]«Nel significato stesso del termine legge è insito il concetto di scelta del giusto e del vero», ci dice Cicerone in De Legibus, II, V 11.

[5]Plutarco, L’arte di ascoltare, 38D 5 – 39 B 6.

[6]Passando così dalla categoria del patire a quella dell’agire. Non a caso, agere vuol dire proprio condurre.

[7]Si veda Omero, Odissea, IX, v. 290

[8]Vedi Repubblica, 470b.

[9]«Sulla terra non v’era un solo genere di Eris, bensì due ve ne sono; e mentre l’una è lodata da chi ben la conosce, l’altra è riprovevole: hanno infatti indole diversa» (Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 11-13).

[10]Ivi, vv. 14-20.

[11]Ivi, vv. 180-196.

[12]In un antro buio nasce Hermes, dio della parola e del silenzio, figlio di Zeus e Maia!

[13] Anche il nostro sistema scolastico è tuttora strutturato (almeno in linea di principio), sebbene prevalga adesso l’orientamento alla nozione invece che all’educazione, in maniera tale che il percorso dello studente sia soprattutto una lunga pratica nell’ascolto degli insegnanti. Solo a conclusione e coronamento del percorso universitario gli viene infatti richiesto di formulare quella che deve essere una sua tesi originale.

[14]Riguardo l’importanza del silenzio all’interno del percorso spirituale, particolare interesse meritano le considerazioni svolte da Plotino, il quale mostra come esso sia condizione necessaria alla ricezione della verità che viene dall’Uno: «Ma in chi è assolutamente semplice [l’Uno] quale processo è possibile? Nessuno, ma basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto, almeno finché avviene, non si avrà affatto né la possibilità né il bisogno di parlare: solo più tardi si potrà ragionarci sopra. Ma in quell’istante bisogna credere d’aver visto, quando l’anima coglie, improvvisamente, la luce. Poiché questa luce proviene da Lui, o meglio è Lui stesso […]. Questo è il vero fine dell’anima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella stessa luce […]. Nemmeno il sole si vede mediante una luce diversa. Ma come può avvenire? Abbandona ogni cosa [Ἄφελε πάντα]» (Enneadi, V, 3, 17).

[15]Perché porre dei veli, se non per rendere visibile ciò che i nostri occhi non sono ancora in grado di vedere senza tale mediazione? Possiamo pensare al famoso lenzuolo del fantasma, usato in molte rappresentazioni: ci nasconde il suo vero aspetto, ma al contempo ci consente di percepirlo.

[16]Si veda Plutarco, L’arte di ascoltare, 38E.

La società odierna procede esattamente in questa direzione: dando continui impulsi a comprare, cliccare, dare opinioni, “comunicare” (che cosa poi?) senza mai dare sosta, non consente all’uomo di maturare, divenire fecondo, e dunque porta unicamente ai suddetti parti di vento. Nell’uomo che cresce (o piuttosto invecchia) senza maturare «rimane non la puerizia, ma, ciò che è più grave, la puerilità: e in questo è peggiore la nostra condizione, che abbiamo l’autorità dei vecchi e i vizi dei fanciulli, anzi degli infanti». L’infantilismo è la condizione cui è relegata la maggior parte degli uomini odierni, soggetti a pulsioni e capricci che si fanno via via più tirannici e che ne fanno però un consumatore perfetto, facile da dirigere al pascolo o nel suo navigare, estremamente recettivo a ogni impulso all’acquisto.

Ipazia con il padre Telone, tratto dal film Agorà.

ORAZIO COCLITE, MUZIO SCEVOLA E CLELIA

di K. Monterosso

“Et facere et pati fortia romanum est.”

Operare e patire da forti è da romano

  • Tito Livio

Nella Roma antica il saper soffrire e morire per la Patria, con Pietas, era il valore massimo che un uomo potesse avere.

La storia di queste tre figure eroiche, si colloca nel VI secolo a.e.v.  tra la fine dell’età regia e l’avvento della repubblica.

Tarquinio il Superbo era stato da poco cacciato dalla rivoluzione del popolo per abusi di potere, violenze e cattiva amministrazione. Esiliato chiese appoggio a Porsenna, Lucumone di Chiusi, che intervenne marciando verso Roma.

Giunto alle porte della città eterna, probabilmente con un’armata di suoi alleati etruschi, composta da numerosissimi uomini ben armati, si accampò sul Gianicolo. Per entrare in Roma era necessario attraversare il fiume Tevere sopra l’unico ponte che i romani avevano costruito: il ponte oggi noto col nome di Sublicio (all’epoca ancora in legno), che si dimostrava essere una breccia pericolosissima. Gli uomini di Porsenna già stavano per attraversarlo, quando tra le fila romane si fece avanti un giovane di titanica forza e sconfinata temerarietà: il suo nome era Orazio Coclite. Egli dopo aver fermato i compagni che si stavano dando alla fuga, presi dal panico, li esortò a riarmarsi e distruggere il ponte con ogni mezzo possibile, compreso il fuoco, mentre egli avrebbe retto l’urto dei nemici. Ottenuto ciò che voleva, si parò da solo contro i migliaia di soldati etruschi che rimasero sbalorditi dall’enorme coraggio del romano, il quale, armi alla mano, si scagliò furibondo all’assalto riuscendo a tener testa all’intero esercito nemico e impedendone il passaggio. Nel frattempo i Romani, dietro di lui, abbatterono il ponte con grandi colpi di scure. All’improvviso si udì uno schianto di assi e di travi spezzate: il ponte crollò, trascinando con sé Orazio ed alcuni soldati etruschi. Il Romano era un buon nuotatore e riuscì a porsi in salvo, raggiungendo le rive di Roma salvata.

Porsenna però non si ritirò e pose assedio alla città, con la speranza che i Romani si arrendessero vinti dalla fame.

Non passò molto tempo per riscontrare nella città laziale gli effetti dell’assedio, ma proprio mentre risorse e viveri stavano per finire, condannando il popolo a morte certa, un gruppo di giovani aristocratici romani pensò di risolvere la questione tentando un’impresa temeraria:  uccidere Re Porsenna.

I giovani tirarono a sorte e toccò a Caio Muzio, che presentandosi al Senato, chiese l’autorizzazione ad oltrepassare il Tevere da solo e senza visibili drappelli, per perseguire l’arduo tentativo. Egli ottenne il consenso e dunque, vestitosi da guerriero etrusco, partì con un pugnale nascosto e s’infiltrò nell’accampamento nemico. Arrivato in prossimità del seggio reale, si trovò immerso in una fitta folla, poiché in quel momento si stava distribuendo la paga ai soldati, con Re Porsenna seduto su di un palco con accanto il suo scrivano. Questi ultimi due avevano vestiti molto simili e lo scrivano, che aveva un gran da farsi, si trovava ad avere tutti i soldati che si rivolgevano ad esso; il romano fraintese le figure ed uccise l’uomo sbagliato, trovandosi subito accerchiato dai soldati etruschi e condotto d’innanzi al vero Porsenna che lo intimò di dire chi fosse, allorchè il giovane patrizio rispose: “Sono un cittadino romano, mi chiamo Gaio Muzio. ho voluto uccidere un nemico e nemmeno di fronte alla morte ho meno coraggio di quanto ne ho avuto per uccidere; agire e soffrire da forti è proprio dei Romani. Nè sono io solo a nutrire contro di te tali propositi: dietro di me c’è una lunga fila di giovani reclamanti lo stesso onore. Preparati dunque a questa prova, se ti piace, a lottare in ogni istante della tua vita, a trovarti sempre un pugnale e un nemico nel vestibolo della tua reggia. Questa è la guerra che noi, gioventù romana, ti dichiariamo. Non avrai a temere alcun esercito, alcuna battaglia; ma dovrai vedertela da solo contro ognuno di noi!”.

A quel punto vide poco distante un braciere per sacrifici e continuò:

“Punisco la mia mano perché ha sbagliato”

E dopo aver pronunziato tali parole, pose la propaggine dell’arto destro nel fuoco, lasciandola carbonizzare e rimanendo con fermezza, impassibile al dolore, concluse:

“Guarda come un uomo considera il proprio corpo quando ama la propria Patria”.

Il Re rimase talmente esterrefatto dinnanzi alla grandezza di tale atteggiamento e così impressionato, che diede l’ordine di liberare il giovane, il quale tornò a Roma, dove fu poi soprannominato Scevola, ovvero mancino.

Porsenna iniziò ad avere forti paure nel vedere la forza di un popolo che con un solo uomo fermò il suo esercito sul ponte Sublicio e con ardito eroismo era disposto impunemente a qualsiasi sacrificio pur di salvare la propria libertà, così, volendo preservare la propria vita, decise di intavolare coi romani trattative di pace.

Come parte del trattato di pace, che pose fine alla guerra tra Roma e Clusium, Lars Porsenna ottenne terre e ostaggi del patriziato, tra cui la giovane Clelia della Gens patrizia Cloelia. La ragazza, da indomita ed orgogliosa romana, non accettava di piegarsi al dominio di un nemico, così, una volta portata all’accampamento del Lucumone, non distante dalle sponde del Tevere, aspettò la notte e prendendo in mano la situazione spronò altre otto fanciulle a non piegarsi al giogo dello straniero, incarnando quell’ideale per il quale i loro stessi uomini si erano dimostrati disposti a tutto. Elle in quanto figlie di Roma, non sarebbero dovute esser da meno, decisero così di sfidare coraggiosamente la sorte ed eludere le sentinelle di guardia tornando alla madre patria. Fu così che queste 9 romane fuggirono arrivando sino alle gelate sponde del Tevere, ma durante il tragitto furono scoperte e bersagliate dalle frecce avversarie. L’unico ponte che portava all’urbe, era stato distrutto durante la battaglia con Orazio Coclite, ma piuttosto che la resa, le ragazze si gettarono tra le impetuose acque del sacro fiume sotto una pioggia di dardi. L’eroismo fu ripagato con la riuscita dell’impresa. Giunte all’altra sponda furono accolte dai romani che nel frattempo s’erano armati pensando di essere sotto attacco, ed invece rimasero stupiti nel vedere le giovani donne emergere dall’onde. Clelia ricongiunse le compagne alle proprie famiglie, ma una volta d’innanzi al Senato, lo Stato romano prese la decisione di persistere saldi i virtuosismi propri del sangue dei loro padri, mantenendo fede alla parola data e riconsegnando le 9 fanciulle a Re Porsenna, che una volta ricongiuntosi tra le tende dei propri soldati ordinò che le romane venissero portate al proprio cospetto chiedendo chi fosse stato l’artefice della fuga. Clelia avanzò verso il Re, tenendo fisso lo sguardo con colui che avrebbe potuto condannarla a morte, ammettendo con baldanza la propria colpa e dicendo che da romana non si sarebbe mai chinata a un nemico e che sarebbe stata disposta a riscappare. Porsenna si ritrovò di nuovo d’innanzi all’orgoglio e la fierezza della stirpe romana.

Il Lucumone, già colpito dalla lealtà dei romani ed estasiato dall’arditezza persino delle loro donne, preferì alla fine l’amicizia dei Romani piuttosto che ostinarsi a dare appoggio alla causa del Re spodestato Tarquinio il Superbo, così decise di restituire gli ostaggi e le terre per avere una pace ancora più duratura.

Per le sue gesta vennero tributati a Clelia molti onori e nel foro venne innalzata una statua equestre dell’eroina, ancora visibile nella tarda Repubblica.

Reddito di cittadinanza: un progresso antico!

Si ringrazia la testata di Ereticamente.net per la condivisione

Il polverone che sta alzando l’idea del reddito di cittadinanza è enorme. I poteri forti, secolari e millennari, si scagliano contro questo atto del governo giallo-verde come se fosse un’azione terribile e deplorevole.  La paura di fondo, manifestata pubblicamente, è che ciò accresca l’oziosità, l’evasione fiscale e le truffe contro il tesoro dello stato. Nella realtà dei fatti il reddito di cittadinanza non è un’idea nuova, ma appartiene ad un mondo antico: quello Romano! Cosa altrettanto curiosa è che non si tratta di un concetto maturatosi nel tempo, ma emerso in contemporanea alla fondazione di Roma. Plutarco, nella vita di Romolo, ci segnala che dopo la vittoria contro i Veientini, il primo Re di Roma non volle tenere schiavi, ma restituì i prigionieri di guerra agli avversari ed entrò in conflitto con i Patrizi fondatori perché evitò l’eccesso di crescita delle loro ricchezze rifiutando di distribuire loro nuove terre (oltre, appunto, a non fornirgli manodopera gratuita in forma di schiavi), bensì volle che ad ogni cittadino romano (i quali erano tutti impegnati a partecipare alle attività belliche) venissero equamente distribuite le terre conquistate. In ciò vi è un ideale sociale molto alto che vuole emancipare l’uomo dal dipendere dai ricchi dell’epoca.

A parere di alcuni storici Romolo (1) sarebbe stato eliminato fisicamente da una congiura di individui aspiranti all’accumulazione di ricchezze, e poiché egli era profondamente amato dal popolo, al punto tale che lo riteneva figlio di un Dio, venne sparsa la voce che fu visto ascendere in cielo: da ciò si sviluppò un’apoteosi di Romolo, assunto al rango di divinità col nome di Quirino, che evitò di ricercare il corpo del Re ed eventuali responsabili di un suo possibile omicidio. Nonostante ciò la politica romulea era oramai stata avviata nella città da lui fondata. Questo ideale sociale supererà i confini romani per divenire, due secoli e mezzo dopo, una ideologia comune al mondo italico: la causa di ciò sta nello sviluppo parallelo, nella pitagorica Magna Grecia, dell’intento della cancellazione della povertà tramite la distribuzione di terre (percepite come bene reale appartenente alla natura umana a differenza del denaro che invece la difetta) con la conquista di Sibari nel 510 a.e.v. da parte dei Crotoniati, guidati da Pitagora, il quale propose di distribuire le ampie campagne della città sconfitta alle classi sociali più povere. Anche qui si accese l’opposizione di una parte avida dell’aristocrazia, la quale organizzò una rivolta sanguinolenta nella figura di Cilone, che si concluse con la cacciata dei pitagorici e di un nulla di fatto per i meno abbienti. La cosa ebbe conseguenze pesanti per tutto il sud Italia perché Kroton era la polis di riferimento per le poleis Magnogreche. A riprese i Pitagorici riconquistarono il controllo della città, ma qui gli scontri sociali erano talmente intesi, tra le diverse fazioni, che si dovette fare di Taranto la novella polis a guida della “Lega Italiota”.

Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili.  Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.

Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.

Col tempo Roma si trasformò in un impero sempre più strutturato nella realtà statale, da ciò ne conseguirono la crescita di città sempre più grandi con forte intensità demografica: si sviluppò allora una nuova forma di reddito, dapprima consistente nella distribuzione di alimenti (farina, olio, vino) alle classi meno abbienti, fino alla distribuzione di somme di denaro da Augusto in poi: si tratta del congiarium pro capite, ovvero una somma di denaro minima considerata utile ad avere uno stile di vita dignitoso, che veniva distribuita alle classi meno abbienti per cancellare la povertà. La Res Publica dei romani fu la più longeva, nella storia dell’umanità, perché si fondava su un ideale sociale che voleva la cancellazione della povertà. Persino la schiavitù a Roma ebbe diritti che altrove non esistevano: lo schiavo romano riceveva un reddito che poteva essere fittizio (un credito segnato) o reale (in monete), grazie al quale poteva comprarsi la libertà una volta raggiunta la cifra dovuta. Certo Roma ha avuto molti elementi contrastanti, ma dall’antica italicità si possono trarre valori molti sani ed in alcuni casi risolutivi per problematiche attuali che i nostri antenati già affrontarono.

Nella società odierna non sono più i valori ad essere il centro della società, ma il denaro, ciò ha fatto sì che una riforma di diritto, come quella attuata dal governo di Lega e Cinque Stelle, è mal vista, quasi si subisse un furto, mentre a Roma il denaro non era concepito come obiettivo di vita ma come strumento per una vita dignitosa. Le nostre nazioni divengono moderne nel momento in cui si rifanno alla politica romana: lo stesso concetto di repubblica nasce nell’antica Roma e viene ripreso dall’illuminismo in poi. Il corpo dei diritti civici nasce a Roma e da Roma lo riprendiamo. Recuperare il concetto di “reddito sociale”, concepire lo stato come struttura agente super partes per la risoluzione delle differenze sociali, ciò è profondamente moderno, poiché la modernità trae origine dalla romanità: la repubblica francese, ricca di aquile e altri simboli romani, ricca di titoli ed istituzioni riprese dalla Roma antica ne è la dimostrazione concreta e reale. Questo processo di ripresa e sviluppo non è ancora terminato perché molte, delle istituzioni positive romane, sono da riprendere e svilupparsi, ed il nostro governo attuale sta affrontando una riforma moderna che appartiene alla storia del nostro paese, dove per secoli città e fazioni hanno lottato per poter vedere il loro ideale realizzarsi a discapito dei prepotenti e degli avidi.

Note:
1 – Sulla reale esistenza di un primo re di Roma l’archeologia ha fugato ogni dubbio. A tal riguardo si vedano le ricerche condotte dall’archeologo Andrea Carandini sul Palatino. Un primo re v’è stato, ha fondato la città ed ha eretto una cinta muraria sul Palatino. Certamente vi sono elementi mitistorici e propagandistici elaborati dalla storiografia romana, ma il fatto che si attribuiscano determinate riforme al primo re significa che per i romani, ideologicamente, esse erano importanti e che erano intenzionati a promuoverle;

2 – Vedansi gli atti del convegno “Il pitagorismo in Italia ieri e oggi”, Università La Sapienza di Roma, 2005.

Giuseppe Barbera, archeologo e presidente Pietas.

MMDCCLXXI DIES NATALIS URBIS

 

Il 21 ed il 22 aprile 2018 e.v. l’Associazione Tradizionale Pietas ha svolto, come ogni anno, i festeggiamenti per i Natali di Roma.

Si tratta del momento più importante per le nostre comunità, quello in cui tutte le rappresentanze territoriali di Pietas si incontrano a Roma per onorare gli dèi e disquisire sui temi spirituali ed etici a noi più cari.

 

Le attività del tempio di Giove a Roma, per i Natali dell’Urbe di quest’anno, si sono aperte il 18 aprile 2771 a.v.c. (2018 e.v.) con l’accoglienza di una delegazione Greca, condotta da Vlassis Rassias, venuta ad onorare il Tempio di Giove nel Sanctuarium Pietatis. Allo scambio di doni con i rappresentanti Pietas, è seguito un simposio dove si è dialogato in merito ad un progetto sulle comunanze greco-romane, proposto dal gruppo Ellenico Thyrsos nel 2767 a.v.c. (2014 e.v.) proprio presso l’allora erigendo Sanctuarium Pietatis.

Nella sua sede Romana Pietas ha gestito l’accoglienza soci nella settimana a cavallo dei festeggiamenti, con ottimi risultati logistici. Particolari ringraziamenti vanno al gruppo amico Fons Perennis, che ci ha coadiuvato nella gestione dei sovrannumeri dei gentili giunti a Roma.

In occasione delle feste correnti, il socio Luigi Fratini ha composto un inno per l’Associazione Pietas, accolto dal presidente e dal direttivo nazionale con grande soddisfazione sotto auspici fausti e felici.

Rito al circo massimo

Il 21 aprile, alle ore 11.00, è stata convocata, secondo rito, l’assemblea dei soci Pietas presso il circo Massimo, dove si è svolta la cerimonia rituale in onore dei Numi tutelari di Roma all’interno del pomerio. Ringraziamenti per il sostegno logistico dell’evento vanno al Gruppo Storico Romano che ha concesso l’uso di spazi da lui allestiti.

sala piena 2

Sempre il 21 aprile, alle ore 15.00, si è svolta una conferenza organizzata presso Palazzo Falletti, dove sono intervenuti numerosi relatori sull’argomento del “Fuoco di Vesta”.
In occasione della conferenza è stato presentato anche il nuovo numero della rivista Pietas: “Civitas Sapientiae”. Particolari ringraziamenti a Fons ed Ereticamente per il sostegno a questo evento.

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Alla sera, presso il tempio di Giove, è nato spontaneamente un banchetto con numerosi soci giunti a prendervi parte.

Il 22 aprile, alle ore 10.30, i soci si sono incontrati presso il Tempio di Giove, dove si sono svolti riti di offerte e onorificenze alla triade del Tempio.

Il presidente Pietas, soddisfatto della magnifica riuscita degli eventi di quest’anno, ha decretato che venga ritualmente appesa la Palma della Vittoria sulla porta del tempio di Giove come gesto di ringraziamento agli Dèi.

Il pensiero di Giuliano

Giuliano l’Apostata che fu iniziato ai veri, non concepiva perchè il paganesimo integro ed esuberante della iniziatura romana dovesse sostituirsi con una eresia antimagica che preparava alla morte e non alla vita e che si chiamava cristianesimo appunto per un simbolo di morte.

Giuliano Kremmerz

La Porta Ermetica, cap. VII