Few know it, but the Goddess Angerona is closely connected with the Jupiter Child, the same venerated in Anxur (volsco name of Terracina). In ancient Rome, during the Divalia of December 21, solar rites for the solstice took place at the same time as the saturnal celebrations and the mysteries of Angerona were applied, which connect silence to the predestined birth of the Sun; In Terracina celebrated as a Iuppiter child (Iuppiter Anxur). The connection between Angerona and Venus Libitina is also fundamental (it is in the temple of this goddess that the shrine dedicated to the lady of Silence was kept). In turn, even Libitina is connected to the death of the Sun (December 21) and to the awareness of its certain rebirth (December 25 dies natalis Solis Invicti). In all this, the presence of a shrine dedicated to Venus at the temple of Jupiter Anxur has thrown into crisis archaeologists who begin to launch various hypotheses which, lacking the knowledge of Tradition, distance them from understanding the real connection between Venus and Jupiter as a child. The same mysteries, once reconquered, Pietas kept and celebrated in the Sanctuarium Pietatis (where the temple of Jupiter was erected) faithfully adhering to the sources and ancient logics.
Autore: Giuseppe Barbera
I SEGRETI DEL CIBO DELLA FESTA DEI MORTI
di Noemi Marinelli Barbera
Ogni anno, di questo periodo, tanti sono i luoghi in cui il pensiero va a chi non c’è più.
Le forzature storico religiose hanno teso a comprimere in un unico momento una celebrazione che, nei vari posti del mondo, a seconda delle latitudini, si sarebbe vissuta nel tempo indicato dalla natura.
Le feste precolombiane dedicate ai morti ad esempio – ispiratrici degli attuali festeggiamenti mesoamericani – cadevano in estate, mentre era febbraio il tempo delle feste romane di Parentalia e Feralia.
L’esperienza del ricordo era sempre connessa a momenti in cui il buio tendeva a prevalere sulla luce, essendo il buio, a livello intuitivo, la dimensione di chi abita il regno dei morti.
Quando arriva il momento del passaggio stagionale, le giornate si accorciano e si presenta l’occasione per il raccoglimento interiore ed esteriore (voglia di trascorrere più tempo a casa, di rientrare prima, voglia di tepore domestico).
Nel mondo antico l’uomo viveva a contatto con la natura e ne osservava i ritmi molto più di adesso, poiché da essa dipendeva la sua esistenza.
Ad oggi, sebbene sia ancora così, l’uomo moderno presume di andare per proprio conto e poter fare a meno di fermarsi e capire. Ma la forza della tradizione scorre in ognuno, malgrado il proprio livello di coscienza, e invita silentemente a perpetrare rituarie ricche di significato.
Il cibo in queste occasioni assume un potente valore magico, tantissime le ricette tramandate e preparate per i defunti: il banchetto della festa è imprescindibile, elemento di comunione e connessione tra i due regni, spesso consumato persino nei pressi del sepolcro.
Ancora oggi in India, paese tradizionale con continuità ininterrotta, dopo aver ritualizzato – e offerto cibarie, fiori e incensi sugli altari – i fedeli consumano ogni cosa entrando in comunione con il destinatario dell’offerta, sia esso un Dio, uno Spirito o un Antenato .
Allo stesso modo, nelle preparazioni per i defunti, ritornano ingredienti molto odorosi e gradevoli il cui aroma sfama i morti, poiché il profumo è nutrimento dell’invisibile, e il resto ciba i vivi, permettendo il contatto e l’unione tra i mondi.
OLTRE CHE FONTE DI SODDISFAZIONE IMMEDIATA SIA PER I MORTI CHE PER I VIVI, PER VIA DELLA LORO PIACEVOLEZZA, LE CIBARIE DEL BANCHETTO ASSOLVONO AD ULTERIORI FUNZIONI, TUTTE A VANTAGGIO DI CHI STA ONORANDO GLI ANTENATI.
L’indubbia valenza salutifera del banchetto autunnale va ricercata nelle meravigliose virtù di ciascuno dei tipici ingredienti presenti sulle tavole: ceci, zucca, castagne, mandorle, aglio, melograno, fave, fiori di sambuco, limone… tutti alimenti che depurano l’organismo e lo preparano al passaggio stagionale.
Guardando bene scopriremo che ovunque, a prescindere dai luoghi, ingredienti ricorrenti sono le spezie e soprattutto i semi (sono semi anche i legumi e la frutta secca) e l’amore è l’elemento chiave con cui preparare il tutto (il dolce pensiero per chi non c’è più e per i familiari con cui si condivide la mensa).
E allora penseremo all’analogia del seme che solo se posto nel buio della terra – sotterrato – e accudito con amore, potrà tornare un giorno a vita nuova e dare buon frutto – nel suo eterno ciclo di vita, morte apparente e rinascita -.
Portare il seme in sé per condurre in noi la sua forza, la sua intelligenza e la salubrità che ci dona, portare il seme in sé per rinnovare la certezza della vittoria della luce sul buio.
Così anche il buio diverrà momento fondamentale e sarà approcciato da ognuno con pazienza, attesa, speranza e gioia, piuttosto che nel timore.
Una piccola notazione sulle fave e le leguminose a baccello, considerate classico cibo dei morti: sono tra le uniche sementi che è possibile seminare in novembre, laddove le rigide temperature permettono solo a queste resistentissime piante di sopravvivere al gelo.
Felice festa ad ognuno.
Catone il Censore
CATONE IL CENSORE – “IL PRIMO TRA I PRIMI”
di K. Monterosso
“Io preferisco gareggiare in Virtù con i più virtuosi piuttosto che con i ricchi in ricchezza o con gli avidi in avidità”.
Catone
Spesso, presi dalle persuasioni più o meno futili dei tempi attuali, ci si dimentica dell’immensa virtù di quegli illustri uomini della nostra stirpe che, secoli fa, abitarono il suolo italico. Qualora qualcuno si chiedesse se questa dimenticanza risulti essere un danno, bisognerebbe rispondere prontamente di “sì”. Sì, perché i motivi della decadenza e dello smarrimento della civiltà ultima impongo all’uomo contemporaneo un denudarsi della propria identità. Questi uomini esemplari del passato, i quali ebbero limpidi nel proprio spirito valori ed etiche, fedelmente esprimenti un’epoca fondata sull’eroismo e sulla luminosità olimpica, oggi possono giungere a noi come una sorta di mito, un sublime stile a cui ispirarsi per poi orientare sia i movimenti del proprio animo, sia l’azione volta ad attuare cambiamenti esteriori.
Tra i grandi uomini della stirpe romana, che possiedono l’assoluto diritto di essere elevati ad emblema e pura espressione della civiltà e della virtù, vi è sicuramente Marco Porcio Catone detto il Censore. Un uomo integralmente e gravosamente romano. Elogiato da grandi letterati e filosofi come Cicerone, che lo definì “l’ultimo vero romano”, o Plinio il Vecchio che di lui disse: “non fu secondo a nessuno”; persino i successivi autori cristiani come sant’Ambrogio e sant’Agostino, che certo non risparmiavano critiche al mondo pagano, elogiarono la sua dirittura morale e la sua perfetta coerenza. Ai nostri giorni di Catone rimane ancora lo spettro del “censore”, colui che battagliò strenuamente, affinché il suo popolo non perdesse la sua identità contro i costumi degenerati che in quell’epoca sembravano poter corrompere il puro spirito e la moralità dei figli di Roma.
È bene evidenziare che è proprio per questo ultimo punto che Catone deve essere preso da esempio da chi voglia “censurare” la decadenza e l’assenza di valori veri, propria del nostro tempo. Per l’appunto si dovrebbe ritenere la vita di Catone come fonte di importanti spunti, i quali non devono fermarsi al mero interesse retrospettivo; piuttosto lo studio della vita di questo grande Romano dovrebbe mostrarsi utile a coloro che intendessero trovare un saldo punto di riferimento, per l’analisi ed il giudizio dei numerosi aspetti della decadenza che caratterizza la modernità.
LA VITA IN BREVE
Marco Porcio Catone nacque da una famiglia plebea a Tuscolo, un piccolo villaggio vicino Roma, nel 234 a.e.v.[1] il giovane Catone venne forgiato dal duro, umile e tenace lavoro dei campi; situazione che gli conferirà l’amore per la propria terra, il valore della semplicità, della parsimonia e l’ostinazione tipica del contadino. Passò la sua giovinezza nella solitudine agreste, poichè che la sua casa era situata in un luogo abbastanza desolato. Tuttavia non mancò di distrarsi con le letture sulle grandi imprese degli eroi romani, come Quinzio Cincinnato, Furio Camillo, Curio Dentato e Fabio Massimo, dimostrando così di non essere un semplice uomo rude; anzi egli sentì di possedere un’affinità interiore con i nobili valori della romanità. Non tardarono le prime esperienze militari, durante la seconda guerra punica, che ebbero il pregio sia di toglierlo dal suo isolamento nei campi, sia di forgiarsi – ulteriormente – nei rischi del combattimento (dove dimostrò coraggio e capacità di comando). Così, nel periodo della sua giovinezza, si identificò con il modello dell’uomo romano nella sua forma più originaria, ovvero con il contadino forgiato dal sudore del duro lavoro nei campi e con il guerriero guidato dai valori eroico-aristocratici.
Marco Porcio Catone non mancò di farsi notare dal patrizio Valerio Flacco, il quale diede a quel giovane contadino la spinta necessaria per incunearsi nella vita politica di Roma. Catone iniziò il suo cursus honorum nel 204 a.e.v. come questore in Sicilia, nel 199 a.e.v. venne eletto edile e successivamente pretore in Sardegna, infine nel 196 a.e.v., a 38 anni, venne eletto alla massima carica della Repubblica: console. In questa carriera folgorante, Catone non mancò di ingraziarsi l’appoggio delle classi aristocratiche conservatrici romane, dato che in quegli anni di attività politica si espresse severamente a favore della vita austera e modesta e alla difesa del mos maiorum, dunque contro gli arricchimenti, la lussuria e i dispotismi. Sua è la citazione “i ladri di beni privati passano la vita in carcere e in catene, quelli di beni pubblici nelle ricchezze e negli onori”, la quale dimostra quanto si accanì contro le ingiustizie e la corruzione della politica romana.
Combatté ancora durante la seconda guerra punica, in Spagna ed in Grecia, distinguendosi per abilità, virtù, doti organizzative e di comando. Nel 193 a.e.v. sposò Licinia Terzia, un’aristocratica con la quale diede vita alla sua virtuosa famiglia.
Catone fu anche un ottimo avvocato, uno scrittore originale ed uno stimatissimo oratore.
Nel 184 a.e.v. si svolsero le elezioni per il rinnovo dei censori: in quell’anno, dopo una dura battaglia elettorale Catone venne nominato censore, coronando così il suo cursus honorum. Egli onorò la sua nuova carica con zelo, autorità, intransigenza e dirittura morale, scagliandosi contro la decadenza dilagante, tanto da passare alla storia con il soprannome di “Censore”, “il Censore” per antonomasia.
CATONE COME PATER
Procedendo ad analizzare gli aspetti particolari della vita e della visione di Marco Porcio Catone, è possibile notare come egli – agricoltore, uomo politico e militare – si vantò di essere soprattutto padre. Catone considerò la familia quale cellula base della comunità romana, e non tardò quindi a sposarsi con Licinia Terzia dalla quale ebbe due figli. Il Censore trattò tutti i suoi familiari con bontà e dolcezza, considerandoli cose sacre, ma non risparmiò per questo ai suoi figli un’educazione severa, finalizzata a forgiare i futuri romani in grado di sopportare tutto pur di conseguire una vita virtuosa e devota a Roma. Perciò si impegnò ad insegnare ai figli ad andare a cavallo, a maneggiare la spada, a sopportare le intemperie, la fatica, ma anche a conoscere la legge, la storia e le gesta degli eroi romani (scrisse appositamente per loro anche un libro – tra i suoi tanti – intitolato Origines, nel quale illustrò le imprese degli avi). Non mancò neppure di dimostrare in famiglia un pudore fortissimo, e pretese il massimo rispetto sia dalla moglie che dai figli, in quanto, secondo la Tradizione, nelle famiglie romane a detenere una superiore dignitas fu sempre il padre.
VISIONE CATONIANA DELL’ECONOMIA E DEL LAVORO
“Fra i contadini si formano uomini di fortissima tempra e soldati valorosissimi; e dall’agricoltura consegue il profitto più onesto, più stabile, meno sospetto: chi è occupato in quell’attività non nutre pensieri malevoli”.
Catone, De Agricoltura
La parola “economia” (letteralmente dal greco “casa” e “amministrazione”) dovrebbe subito far pensare ad un’amministrazione e gestione della casa in un tocco rudimentale e semplicistico. È solo con la moderna accezione che l’economia, contemporanea figlia dell’espansione dei commerci, delle rivoluzioni industriali, delle multinazionali fino ai capitali virtuali, è divenuta qualcosa di incomprensibile ai più per via di astratti processi e formule: un concetto talmente mutato che verrebbe da chiedersi cosa effettivamente c’entri con quel significato grossolano e primitivo che l’etimologia assolve. Per rispondere è necessario rivolgere lo sguardo alle concezioni del lavoro e dell’economia nell’antichità: si noterà che queste furono nettamente contrarie alle disposizioni oggi dominanti.
La romanità non era caratterizzata dall’ottica dell’investimento, del guadagno, del produrre sempre in maggiori quantità, piuttosto, fu caratteristica la frugalità, la moderazione negli acquisti, fino ad arrivare alla parsimonia. L’idea principale che si ebbe del lavoro, fu quella di concepire la propria professione non come un incatenamento o un impegno totalizzante (come, invece, spesso oggi avviene, confondendo la persona con la sua professione), il lavoro fu sentito, piuttosto, come una mera attività con il fine esclusivo del soddisfare le esigenze basilari, quindi senza smarrire la propria dimensione esistenziale rincorrendo ad un sempre maggiore guadagno o crescita: per dirla con un termine economico, senza ricercare un “surplus” nella produzione.
Il tempo che non veniva speso in cerca di arricchimenti, era utilizzato per l’otium, ovvero per esercitare le attività politiche, culturali e spirituali di edificazione della persona. Concezione pienamente vissuta dal Censore.
In particolare Catone vide il mestiere dell’agricoltore come superiore a tutti gli altri, in quanto la cura assidua dei campi, a suo giudizio, era capace di forgiare cittadini romani tenaci e prodi soldati. Egli considerò che l’attività del contadino fosse in grado di dare sicurezza economica e una vita stabile, improntata alla sobrietà ed all’autosufficienza. Ogni guadagno derivante dall’attività agricola doveva essere onesto e conseguito nel rispetto del mos maiorum.
Un’altra ragione per la quale Catone considerò l’agricoltura attività eccelsa, va individuata nell’importanza che, sin dai primordi, caratterizzò il rapporto tra i Romani e la terra.
Tuttavia dopo le guerre vittoriose del II secolo a.e.v. iniziò la diffusione inarrestabile delle attività di tipo commerciale. Ciò ebbe a Roma l’aspetto di una rivoluzione dei valori, in quanto l’intensa attività commerciale comportò l’apertura verso altri mondi, lo scambio assiduo di merci e tanto altro (una sorta di globalizzazione ante-litteram): tali cose che non piacquero a Catone, data la sua diffidenza nei confronti del cambiamento e dell’apertura verso l’esterno. Il commercio, secondo il Censore, non era particolarmente adatto a garantire l’onesto guadagno, in quanto l’attività commerciale si basava più sulla furbizia e sull’abilità seduttiva, anziché sul duro e semplice lavoro del contadino.
Le cose peggiorarono ulteriormente con la veloce diffusione dell’usura, pratica contro la quale Catone si scagliò vivacemente poiché anch’essa non genera un onesto e sofferto guadagno, anzi tutt’altro: alla domanda su cosa ne pensasse dell’usura, il Censore replicò “e tu cosa ne pensi dell’uccidere un uomo?”. In varie arringhe, Catone, si sforzò di dimostrare la dannosità dell’usura, come quando ribadì che le leggi di Roma condannavano “un ladro al pagamento del doppio e l’usuraio al pagamento del quadruplo”. Chiara fu, dunque, la sua condanna morale di quello che oggi in economia viene disinvoltamente chiamato “interesse”, ma che invece bisognerebbe chiamare “usura”.
Nonostante l’azione di Catone e dei suoi seguaci, Roma andò sempre di più arricchendosi anche e soprattutto attraverso le nuove pratiche commerciali e usuraie, che suscitarono il malcontento della popolazione più povera, favorirono la classe dei mercanti – la quale, come la storia ha spesso dimostrato, possiede una scarsa affinità con i principi ed i valori che caratterizzano una società tradizionale – e indussero l’aristocrazia a smarrirsi nei lussi e nei piaceri. Catone volle invece dimostrare coerenza all’Urbe e marciò contro corrente, sforzandosi di disprezzare i guadagni facili, le vesti sgargianti, le case lussuose, i cibi raffinati e i vizi sovversivi, preferendo condurre una vita umile e austera, faticosa ma saldamente ancorata alla fedeltà nei principi morali della Roma delle origini.
LE BATTAGLIE E I PRINCIPI CONTRO LA DECADENZA MORALE
Catone visse in un periodo molto turbolento della storia di Roma: il tempo delle guerre puniche. Sebbene in queste dure prove la grandezza interiore del popolo romano dimostrò di raggiungere il proprio apice, di lì a poco Roma cominciò ad essere una città aperta a nuovi costumi, diametralmente opposti al suo stile di vita originario; ovvero la forza morale, base dell’ideale politico dell’Imperium – che sottomise il materialismo ed il sensualismo orientali – andò scemando lasciando spazio nell’Urbe proprio ai quei caratteri licenziosi delle popolazioni dominate.
In particolare gli influssi del decadente mondo greco – ormai lontano dall’armonia e dalla misura “apollinea”, nonché dall’austerità spartana – si rivelarono causa di vizi e di corruzione.
Catone riconobbe il pericolo derivante dall’apertura ai nuovi costumi, il grave rischio che l’identità romana potesse perdere la sua originalità e scadere, per esempio, nell’individualismo, contrario al forte senso della comunità ed alla lealtà allo Stato; temette pure l’importazione di pratiche licenziose tipiche del mondo orientale.
Furono invece favorevoli alla visione di una Roma più aperta al mondo: Scipione l’Africano e la sua ricca e potente famiglia. La visione degli Scipioni fu rivolta all’espansione della pratica del commercio, fino a quel momento ritenuta dai romani un’attività poco onesta ed in contrasto con l’edificante e autarchico lavoro dei campi.
Scipione volle pure una Roma meno radicata nel passato e disposta ad essere influenzata da nuove idee e dai costumi provenienti dall’Oriente. Due visioni opposte, dunque, quella del Censore e quella dell’Africano. Scontrarsi con la prestigiosa famiglia degli Scipioni, costò a Catone la progressiva perdita dei privilegi. Anche il consenso popolare ne risentì, poiché l’agio ed il lusso conseguenti alle grandi conquiste, cominciarono ad influenzare anche gli strati della popolazioni fino ad allora esclusi da un certo tenore di vita.
L’aristocrazia, che inizialmente appoggiò il Censore, finì con l’abbandonare Catone insieme alle antipatie nei confronti dell’ellenismo decadente e delle culture esotiche. C’è da osservare, inoltre, che Catone suscitò il malcontento dei patrizi poiché si batteva contro i loro privilegi; ciò non perché fosse a favore di una società egualitaria, ma perché desiderava restituire la giusta dignità al popolo contro la corruzione economica e morale del patriziato.
Catone morì nel 149 a.e.v. in solitudine ed impotente di fronte alla sua Roma che si stava dando ai vizi. Egli tuttavia rimase coerente con i suoi principi sino alla morte.
Nonostante la dura opposizione di Catone, in quel periodo Roma si volse verso il “nuovo” – lo straniero, il progresso – in un processo che evidentemente fu quasi inarrestabile. In particolare, dopo la vittoria su Antioco III, vi fu nell’Urbe un massiccio afflusso di poeti, cuochi, intellettuali, musici, prostitute, i quali portarono ad una diffusione di idee inedite, nuovi culti e licenze.
Invase Roma uno spirito “dionisiaco” e asiatico, caratterizzato dall’amore per il confuso, per l’informe, per la promiscuità dei sessi e delle classi sociali, per l’illimitato ed il piacere edonistico. La missione metastorica di Roma fu l’affermazione dello spirito sano che ne informava la società, tuttavia, nel periodo catoniano, si vide il popolo romano cedere a quei costumi che rappresentavano l’esatto opposto dell’austera romanità perseguita dal Censore.
Tra le conseguenze pratiche dello spirito nuovo che si diffuse tra i romani, vi furono: l’aumento dei divorzi, la pratica del celibato, il libertinaggio della gioventù, l’avidità dei guadagni, la diffusione dei culti orgiastici orientali, contro i quali venne emesso uno specifico emendamento da parte del Senato, finalizzato a ridurli. Catone sicuramente contribuì in modo eccelso ad arginare la decadenza della migliore romanità, ponendosi quale ostacolo tenacissimo ai moti sovversivi che gli si pararono innanzi.
CONCLUSIONE
Da questa sintesi della vita di Catone e delle sue principali battaglie, emerge la figura di un uomo che potremmo definire integro e “integrale”: Catone fu un capace combattente, un ottimo senatore, un severo magistrato, un erudito scrittore, un premuroso pater familias, un agricoltore, un sacerdote; riuscì a riassumere in sé, con la massima serietà ed applicazione, tutte quelle funzioni che un vero e nobile romano, radicato nel mos maiorum, doveva sforzarsi di incarnare. In particolare le virtù dell’agricoltore, il coraggio del combattente e lo zelo per l’attività politica.
Catone può essere considerato una personificazione del mos maiorum. Egli ebbe una spiccata sensibilità per la parsimonia, l’intolleranza verso la decadenza dei costumi, la vita fieramente austera che sola può conservare incontaminati quei valori dell’antica e migliore romanità. Valori che permisero al Censore di elevarsi al ruolo di difensore dello Stato e delle leggi sacre di Roma, fino agli ultimissimi giorni della sua vita quando, ormai ottantenne, emarginato ed incompreso dai più, si difese contro i giovani rampolli, figli della nuova cultura contaminata dagli influssi orientali, che nulla sapevano dell’autentica romanità.
La vicenda esistenziale di Catone mostra un uomo angustiato dal progresso incontenibile: nonostante la sua opposizione, la sua costante volontà di rettificare, la sua intolleranza e le sue azioni, egli non riuscì ad arrestare il nuovo e, con esso, la decadenza.
La lotta per ristabilire l’identità di Roma contro l’avanzata della decadente cultura tardo-ellenistica, la quale comportò conseguenze devastanti come il dilagare dell’usura, della corruzione, dell’incapacità di fare famiglia, (da cui i conseguenti divorzi volti a contrarre nuovi matrimoni per l’ascesa al potere), della decadente sessualità orientale (che voleva importare persino l’uso del “puer delicatus”, ossia la pedofilia) è da paragonare, in qualche modo, a quella speciale lotta oggi condotta dall’ “uomo differenziato” dei tempi ultimi. “Uomo differenziato” in quanto refrattario all’omologazione imposta dall’ideologia mondialista e ostinatamente attaccato ad una concezione tradizionale della vita. “Uomo differenziato” che si trova a dover fronteggiare tutte le insidie e le seduzioni suscitate dal dominio che la scienza, la tecnica e l’economia esercitano nel mondo moderno, un dominio che, di fatto, non tollera l’idea stessa di società tradizionale, imperniata sul concetto di Verità oggettiva radicata nel trascendente.
Dinnanzi a questa triste realtà, che vede avanzare ogni giorno di più il fronte della sovversione, è normale porsi la domanda se sia giusto o meno avversare e combattere ostinatamente l’incedere, apparentemente inarrestabile, del celebrato “progresso”, rischiando di vivere in una condizione di isolamento incompreso rispetto alla maggioranza dei connazionali. Il dubbio può essere risolto anche guardando all’esempio offerto da quel Romano, Marco Porcio Catone, che 2500 anni fa visse in una situazione simile a quella odierna. Egli, come sospeso fra due ere, scelse di combattere con una coerenza eroica, fino alla fine dei suoi giorni, per difendere la propria identità e i valori dei Padri, incurante delle avversità e degli antagonismi. La sua lotta non fu per nulla infruttuosa: un secolo e mezzo dopo di lui, l’idea del recupero dei valori delle origini riuscì a vincere nella figura di Augusto, il quale fondò il nuovo (l’impero), imperniandolo nei valori più arcaici dell’etica romana. Il classicismo di Catone si schierava contro un ellenismo decadente, che nulla aveva più a che fare con il grande ideale Alessandrino, così la rifondazione di Roma da parte di Augusto vede la rimonumentalizzazione del sepolcro di Romolo, volta a sancire l’ideale di ritorno alle origini, ulteriormente ribadito nell’arte dal nuovo classicismo augusteo. Allo stesso modo, colui che oggi è desto dinnanzi alle rovine, deve concepire che una vita trascorsa nella coerenza dei principi, quand’anche procuri sofferenza e non faccia avvisare alcun bagliore di speranza, è infinitamente nobile, romana e degna di essere vissuta e, allo stesso modo dell’esempio catoniano, può essere seme destinato a fruttare nel secolo a venire.
[1] A.e.v. sta per avanti era volgare.
Reddito di cittadinanza: un progresso antico!
Si ringrazia la testata di Ereticamente.net per la condivisione
Il polverone che sta alzando l’idea del reddito di cittadinanza è enorme. I poteri forti, secolari e millennari, si scagliano contro questo atto del governo giallo-verde come se fosse un’azione terribile e deplorevole. La paura di fondo, manifestata pubblicamente, è che ciò accresca l’oziosità, l’evasione fiscale e le truffe contro il tesoro dello stato. Nella realtà dei fatti il reddito di cittadinanza non è un’idea nuova, ma appartiene ad un mondo antico: quello Romano! Cosa altrettanto curiosa è che non si tratta di un concetto maturatosi nel tempo, ma emerso in contemporanea alla fondazione di Roma. Plutarco, nella vita di Romolo, ci segnala che dopo la vittoria contro i Veientini, il primo Re di Roma non volle tenere schiavi, ma restituì i prigionieri di guerra agli avversari ed entrò in conflitto con i Patrizi fondatori perché evitò l’eccesso di crescita delle loro ricchezze rifiutando di distribuire loro nuove terre (oltre, appunto, a non fornirgli manodopera gratuita in forma di schiavi), bensì volle che ad ogni cittadino romano (i quali erano tutti impegnati a partecipare alle attività belliche) venissero equamente distribuite le terre conquistate. In ciò vi è un ideale sociale molto alto che vuole emancipare l’uomo dal dipendere dai ricchi dell’epoca.
A parere di alcuni storici Romolo (1) sarebbe stato eliminato fisicamente da una congiura di individui aspiranti all’accumulazione di ricchezze, e poiché egli era profondamente amato dal popolo, al punto tale che lo riteneva figlio di un Dio, venne sparsa la voce che fu visto ascendere in cielo: da ciò si sviluppò un’apoteosi di Romolo, assunto al rango di divinità col nome di Quirino, che evitò di ricercare il corpo del Re ed eventuali responsabili di un suo possibile omicidio. Nonostante ciò la politica romulea era oramai stata avviata nella città da lui fondata. Questo ideale sociale supererà i confini romani per divenire, due secoli e mezzo dopo, una ideologia comune al mondo italico: la causa di ciò sta nello sviluppo parallelo, nella pitagorica Magna Grecia, dell’intento della cancellazione della povertà tramite la distribuzione di terre (percepite come bene reale appartenente alla natura umana a differenza del denaro che invece la difetta) con la conquista di Sibari nel 510 a.e.v. da parte dei Crotoniati, guidati da Pitagora, il quale propose di distribuire le ampie campagne della città sconfitta alle classi sociali più povere. Anche qui si accese l’opposizione di una parte avida dell’aristocrazia, la quale organizzò una rivolta sanguinolenta nella figura di Cilone, che si concluse con la cacciata dei pitagorici e di un nulla di fatto per i meno abbienti. La cosa ebbe conseguenze pesanti per tutto il sud Italia perché Kroton era la polis di riferimento per le poleis Magnogreche. A riprese i Pitagorici riconquistarono il controllo della città, ma qui gli scontri sociali erano talmente intesi, tra le diverse fazioni, che si dovette fare di Taranto la novella polis a guida della “Lega Italiota”.
Osservando il fenomeno di nascita della prima Italia, risalta la presenza di un filo conduttore che ideologicamente vuole i cittadini liberi da ogni forma di servitù tramite un reddito pro capite che provenga dalla terra concessagli dallo stato. Il fenomeno è oltretutto meritocratico e spinge l’uomo allo sviluppo del concetto comunitario perché arriva alla conquista della sua “indipendenza economica” tramite la disponibilità d’impegno data alla comunità, vuoi servendo nell’esercito od in altre strutture statali. A questa linea ideologica si oppongono gruppi di latifondisti che ambiscono al controllo dello stato e delle ricchezze da esso reperibili. Quando Roma arriva allo scontro con Taranto, nel 280a.e.v., ci si rende conto di come la Magna Grecia sia animata dalle medesime aspirazioni civili e sociali dei Romani, motivo per il quale questi ultimi elaborarono una leggenda che voleva Re Numa discepolo di Pitagora (cosa impossibile perché i due sono vissuti a circa due secoli di distanza), un motivo di propaganda che risultò credibile a causa delle medesime ideologie attive tra italioti e romani (2). La politica della libertà attraverso il possesso o reddito terriero si vide contrapposta all’ottica delle società fondate sul commercio, come quella punica, dove la ricchezza fondamentale non era la terra bensì il denaro. Gli scontri con la plutocrazia cartaginese si conclusero con la distruzione di Cartagine del 146 a.e.v.
Dopo tale evento le tensioni sociali italiche si accentuarono: i Gracchi proposero, per l’ennesima volta, la distribuzione di terre ai meno abbienti: con la crescita del dominio romano aumentavano i cittadini e le necessità ad essi connesse. I nobili intenti di questa famiglia romana trovarono la contrapposizione dei soliti “poteri forti” che, questa volta, li eliminarono spietatamente in pubblico. Dei terreni di Cartagine non si fece più nulla, ed una enorme ricchezza pubblica restava lì, bloccata ed improduttiva. Nel giro di mezzo secolo i contrasti sociali giunsero ad una terribile guerra dove le città italiane si allearono contro i poteri forti di Roma per vedersi riconosciuta la cittadinanza e poter prendere parte alle votazioni inerenti la gestione delle nuove terre: fu la guerra sociale. Silla ufficialmente vinse, ma dovette concedere la cittadinanza romana ai “socii” (alleati) italici, i quali, con ciò, furono i veri vincitori. L’identità italiana raggiunse finalmente la realizzazione del suo ideale sociale sotto Cesare: questi nel 59 a.e.v. concretizzò la riforma agraria, facendo ottenere ad ogni cittadino la quantità di terreno necessario all’indipendenza della propria famiglia.
Col tempo Roma si trasformò in un impero sempre più strutturato nella realtà statale, da ciò ne conseguirono la crescita di città sempre più grandi con forte intensità demografica: si sviluppò allora una nuova forma di reddito, dapprima consistente nella distribuzione di alimenti (farina, olio, vino) alle classi meno abbienti, fino alla distribuzione di somme di denaro da Augusto in poi: si tratta del congiarium pro capite, ovvero una somma di denaro minima considerata utile ad avere uno stile di vita dignitoso, che veniva distribuita alle classi meno abbienti per cancellare la povertà. La Res Publica dei romani fu la più longeva, nella storia dell’umanità, perché si fondava su un ideale sociale che voleva la cancellazione della povertà. Persino la schiavitù a Roma ebbe diritti che altrove non esistevano: lo schiavo romano riceveva un reddito che poteva essere fittizio (un credito segnato) o reale (in monete), grazie al quale poteva comprarsi la libertà una volta raggiunta la cifra dovuta. Certo Roma ha avuto molti elementi contrastanti, ma dall’antica italicità si possono trarre valori molti sani ed in alcuni casi risolutivi per problematiche attuali che i nostri antenati già affrontarono.
Nella società odierna non sono più i valori ad essere il centro della società, ma il denaro, ciò ha fatto sì che una riforma di diritto, come quella attuata dal governo di Lega e Cinque Stelle, è mal vista, quasi si subisse un furto, mentre a Roma il denaro non era concepito come obiettivo di vita ma come strumento per una vita dignitosa. Le nostre nazioni divengono moderne nel momento in cui si rifanno alla politica romana: lo stesso concetto di repubblica nasce nell’antica Roma e viene ripreso dall’illuminismo in poi. Il corpo dei diritti civici nasce a Roma e da Roma lo riprendiamo. Recuperare il concetto di “reddito sociale”, concepire lo stato come struttura agente super partes per la risoluzione delle differenze sociali, ciò è profondamente moderno, poiché la modernità trae origine dalla romanità: la repubblica francese, ricca di aquile e altri simboli romani, ricca di titoli ed istituzioni riprese dalla Roma antica ne è la dimostrazione concreta e reale. Questo processo di ripresa e sviluppo non è ancora terminato perché molte, delle istituzioni positive romane, sono da riprendere e svilupparsi, ed il nostro governo attuale sta affrontando una riforma moderna che appartiene alla storia del nostro paese, dove per secoli città e fazioni hanno lottato per poter vedere il loro ideale realizzarsi a discapito dei prepotenti e degli avidi.
Note:
1 – Sulla reale esistenza di un primo re di Roma l’archeologia ha fugato ogni dubbio. A tal riguardo si vedano le ricerche condotte dall’archeologo Andrea Carandini sul Palatino. Un primo re v’è stato, ha fondato la città ed ha eretto una cinta muraria sul Palatino. Certamente vi sono elementi mitistorici e propagandistici elaborati dalla storiografia romana, ma il fatto che si attribuiscano determinate riforme al primo re significa che per i romani, ideologicamente, esse erano importanti e che erano intenzionati a promuoverle;
2 – Vedansi gli atti del convegno “Il pitagorismo in Italia ieri e oggi”, Università La Sapienza di Roma, 2005.
Giuseppe Barbera, archeologo e presidente Pietas.
DEL RISPETTO DELLE DONNE PRESSO I ROMANI
Nella novella Roma il Re Romolo, figlio di Dio Marte, dovette procurar mogli ai suoi cittadini col noto inganno dei giochi in cui fu attuato il ratto delle Sabine.
Siamo portati a vedere questo come un atto violento ed ingiusto, ma il rispetto che Romolo volle per le donne fu tale che la sua azione prese una piega ben diversa.
Plutarco infatti commenta che “col conseguente onore, amore, e spirito di GIUSTIZIA con cui furono trattate le donne dimostrò che quell’atto di violenza e di sopraffazione fu un’impresa di grandissimo valore politico, mirante a promuovere un’unione fra i due popoli [sabini e romani]”. (vita di Romolo, 35(6), 2). “Del rispetto, dell’amicizia e della saldezza che egli impresse alle relazioni matrimoniali è testimone il tempo. Nel giro di 230 anni nè un uomo osò abbandonare l’unione con la moglie, nè una donna quella col marito” (vita di Romolo, 35(6),3-4). A guisa di ciò ricordiamo che i Romani avevano il divorzio nel loro diritto, e che questi tutelava sempre la donna, la quale poteva divorziare e tornare alla sua famiglia con tutta la sua dote, la quale non poteva essere sperperata dal marito, bensì preservata e se possibile accresciuta. Dunque Plutarco sostiene che se le donne non usassero divorziare dai mariti è perchè queste si sentivano talmente rispettate, amate ed onorate che preferivano restare nella nuova casa piuttosto che tornare dai propri genitori (e non pensiate che non esistessero già all’epoca suocere che reclamavano il ritorno della figlia dopo il matrimonio!). D’altro canto gli stessi uomini evitavano di divorziare dalla donna per amore e rispetto nei suoi riguardi, nonostante di fanciulle in cerca di marito ve ne fossero tante, mentre gli uomini, falciati dalle perenni guerre, erano pochi.
Plutarco ci sottolinea che il primo divorzio fu richiesto 230 anni dopo il ratto delle Sabine: “tutti i Romani sanno che Spurio Carvilio fu il primo a ripudiare la moglie accusandola di sterilità.” (Plut., vita di Romolo, 35(6), 4).
Del resto è noto a tutti l’evento in cui le Sabine, quando giunsero i padri ed i fratelli a liberarle, non vollero che si procedesse nella contesa, ma chiesero che i due popoli si unissero ora che avevano avuto dei figli dai loro mariti. Le loro suppliche vennero ascoltate e così “fu accettata una tregua ed i capi vennero a trattativa.Frattanto le donne condussero i loro padri e fratelli, i propri mariti e figlioletti, e portavano da mangiare e da bere a chi ne aveva bisogno, e curavano i feriti portandoli nelle proprie dimore e mostravano come avessero loro il governo della casa e come i mariti avessero attenzioni per loro e le trattassero con benevolenza ed ogni rispetto. Si fece allora la pace a queste condizioni: che restassero coi loro mariti le donne che lo volevano...” (Plut., Vita di Romolo, 19, 8-9). Ovviamente le donne restarono coi propri mariti e Sabini e Romani abitarono nella stessa città, la quale venne chiamata Roma in onore di Romolo, ed i suoi abitati Quiriti per riguardo alla patria di Tazio (ibidem).
Plutarco ci rammenta alcuni dei grandi onori che furono tributati alle donne: “cedere la strada quando camminano”, e quindi non più che le donne dovessero scansarsi al passare di uomini, “astenersi in modo assoluto da ogni parola sconveniente in presenza di una donna” a differenza degli usi di ben altri popoli, “nè farsi vedere nudi o subire davanti ai giudici in loro presenza un processo per delitti capitali“, queste ultime due norme comportamentali era per evitare atteggiamenti sconvenienti nei riguardi delle donne e perchè non vivessero la sofferenza di assistere ad una condanna.
Insomma i primi ad avere un minimo di rispetto verso il “gentil sesso” furono proprio gli antichi Romani, da ciò diviene chiaro comprendere da chi, gli Italiani, hanno ereditato quel fare tipico del sentimento latino, capace di conquistare ogni donna in ogni parte del mondo… Forse un pò le scorribande di altri popoli possono aver corrotto quel sentimento puro che l’Italico aveva elaborato per la donna, così come la nuova religione orientale ha sovvertito il rispetto tipico della religione romana, ma non disperiamo: se cerchiamo bene, nel nostro DNA quella memoria di un sano comportamento può risvegliarsi in un attimo, e magari ridestarla in quest’epoca folle di continui delitti nei riguardi delle donne non sarebbe male.
Giuseppe Barbera
MMDCCLXXI DIES NATALIS URBIS
Il 21 ed il 22 aprile 2018 e.v. l’Associazione Tradizionale Pietas ha svolto, come ogni anno, i festeggiamenti per i Natali di Roma.
Si tratta del momento più importante per le nostre comunità, quello in cui tutte le rappresentanze territoriali di Pietas si incontrano a Roma per onorare gli dèi e disquisire sui temi spirituali ed etici a noi più cari.
Le attività del tempio di Giove a Roma, per i Natali dell’Urbe di quest’anno, si sono aperte il 18 aprile 2771 a.v.c. (2018 e.v.) con l’accoglienza di una delegazione Greca, condotta da Vlassis Rassias, venuta ad onorare il Tempio di Giove nel Sanctuarium Pietatis. Allo scambio di doni con i rappresentanti Pietas, è seguito un simposio dove si è dialogato in merito ad un progetto sulle comunanze greco-romane, proposto dal gruppo Ellenico Thyrsos nel 2767 a.v.c. (2014 e.v.) proprio presso l’allora erigendo Sanctuarium Pietatis.
Nella sua sede Romana Pietas ha gestito l’accoglienza soci nella settimana a cavallo dei festeggiamenti, con ottimi risultati logistici. Particolari ringraziamenti vanno al gruppo amico Fons Perennis, che ci ha coadiuvato nella gestione dei sovrannumeri dei gentili giunti a Roma.
In occasione delle feste correnti, il socio Luigi Fratini ha composto un inno per l’Associazione Pietas, accolto dal presidente e dal direttivo nazionale con grande soddisfazione sotto auspici fausti e felici.
Il 21 aprile, alle ore 11.00, è stata convocata, secondo rito, l’assemblea dei soci Pietas presso il circo Massimo, dove si è svolta la cerimonia rituale in onore dei Numi tutelari di Roma all’interno del pomerio. Ringraziamenti per il sostegno logistico dell’evento vanno al Gruppo Storico Romano che ha concesso l’uso di spazi da lui allestiti.
Sempre il 21 aprile, alle ore 15.00, si è svolta una conferenza organizzata presso Palazzo Falletti, dove sono intervenuti numerosi relatori sull’argomento del “Fuoco di Vesta”.
In occasione della conferenza è stato presentato anche il nuovo numero della rivista Pietas: “Civitas Sapientiae”. Particolari ringraziamenti a Fons ed Ereticamente per il sostegno a questo evento.
Alla sera, presso il tempio di Giove, è nato spontaneamente un banchetto con numerosi soci giunti a prendervi parte.
Il 22 aprile, alle ore 10.30, i soci si sono incontrati presso il Tempio di Giove, dove si sono svolti riti di offerte e onorificenze alla triade del Tempio.
Il presidente Pietas, soddisfatto della magnifica riuscita degli eventi di quest’anno, ha decretato che venga ritualmente appesa la Palma della Vittoria sulla porta del tempio di Giove come gesto di ringraziamento agli Dèi.
Caristia e San Valentino
Il 22 febbraio nell’antica Roma si festeggiavano i Caristia, la festa dell’amor familiare e coniugale. Si trattava di una festa riguardante l’ambito privato, non quello pubblico, durante il quale i familiari si riunivano attorno il Larario per fare offerte ai Penati e banchettare assieme. Il banchetto aveva la funzione rituale di ricongiungere i familiari in caso di eventuali dissapori.
Il 13 febbraio incominciavano i Parentalia, giorni dedicati agli antenati, ai quali seguivano i Feralia del 21 ed i Carstia del 22.
Il tutto era un ciclo dedicato alla famiglia, dall’amore commemorativo per i parenti defunti a quello per i vivi. Particolarmente il 22 i coniugi festeggiavano la loro unione ed il loro legame amoroso scambiandosi doni.
Nonostante l’abolizione forzata del culto antico, l’uso popolare dello scambio di doni tra coniugi rimase, in particolar modo tra gli innamorati che, il 14 febbraio, all’inizio delle antiche feste dedicate all’amore familiare, ancora oggi si scambiano doni.
LODE AL SOLE INVITTO
LODE A TE O SOLE RADIANTE IDDIO, VINCITORE DEL FREDDO INVERNO, FECONDATORE DELLA FREDDA TERRA, POSSENTE, INVITTO, DISTRUTTORE DI TENEBRE, DEH’! M’ODI, BEATO, ETERNO OCCHIO CHE TUTTO VEDE, TITANO D’AUREA LUCE, IPERION, LUX COELI, DA TE IN TE GENERATO, INSTANCABILE, DOLCE VISTA DEI VIVENTI, A DESTRA GENITORE DELL’AURORA, A SINISTRA DELLA NOTTE, TU CHE MEDI LE STAGIONI, DANZANDO CON PIEDI DI QUADRUPEDE, BUON CORRIDORE, SIBILANTE, FIAMMEGGIANTE, SPLENDENTE, AURIGA, CHE DIRIGI LA VIA CON I CIRCOLI DEL ROMBO INFINITO, PER I PII GUIDA DI COSE BELLE, VIOLENTO CON GLI EMPI, DALLA LIRA DORATA, TRASCINANTE LA CORSA ARMONIOSA DEL COSMO, INDICANTE LE BUONE AZIONI, FANCIULLO CHE NUTRI LE STAGIONI, SIGNORE DEL MONDO, SUONATOR DI SIRINGA, DALL’IGNEA CORSA, TI VOLGI IN CERCHIO, PORTATORE DI LUCE, DALLE FORME CANGIANTI, PORTATORE DI VITA, FECONDO PAIAN, SEMPRE GIOVANE, INCONTAMINATO, PADRE DEL TEMPO, GIOVE IMMORTALE, SERENO, PER TUTTI LUMINOSO, OCCHIO COSMICO CHE CIRCOLA DAPPERTUTTO, CHE TRAMONTI E SORGI CON BEI RAGGI SPLENDENTI, INDICATORE DI RETTITUDINE, AMANTE DEI RIVI, PADRONE DEL COSMO, CUSTODE DELLA LEALTA’, SEMPRE SUPREMO, AIUTO PER TUTTI, OCCHIO DI CORRETTEZZA, LUCE DI VITA; O TU CHE SPINGI I CAVALLI, CHE CON LA SFERZA SONORA GUIDI LA QUADRIGA: ASCOLTA LE PREGHIERE, ED AI PII INIZIATI MOSTRA LA VITA SOAVE.
Lari e Penati
I geni protettori nella tradizione romana. Nella tradizione romana i Lari e i Penati sono divinità legate ai luoghi abitati dagli uomini. Pare che il termine Lare sia presente anche nella tradizione etrusca, dove esseri divini sono rappresentati con le ali. Alcuni hanno associato l’idea di “Lare etrusco” a quella di “angelo cristiano”. Si noti che il Lare etrusco ha le ali ed è rappresentato generalmente nell’atto di sollevarsi in volo; il termine angelo proviene dal greco anghelos, che significa “messaggero”. Cosa abbastanza curiosa il dio Mercurio è definito Messaggero ed è rappresentato con i calzari alati. Certamente in tutte le tradizioni ciò che è rappresentato con le ali si richiama a dimensioni superiori e alla comunicazione con queste. Se è vero, come dicono Elio Ermete e altri grandi maestri delle tradizioni, che ogni divinità rappresenta/è un forza, allora i Lasa etruschi rappresentano/sono una forza di ascensione e comunicazione col cielo, allo stesso modo di Mercurio e dei Lari Romani. A prova di ciò si può richiamare un antico rito in uso in alcuni luoghi della Calabria. Le sere dei giorni di festa la tavola viene apparecchiata secondo determinate regole antiche. Finita la cena si lascia la tavola pulita e apparecchiata col cibo nel posto riservato al “lareddru” secondo dettami che vengono trasmessi di generazione in generazione. La notte non si passa dalla cucina per non infastidire questo presunto ospite. Se al mattino il piatto si trova vuoto si dice che “u Lareddru ha gradito” (il Laretto ha gradito). Questo antico rito di offerta al Lare della casa si tramanda secondo regolari riti cittadini da diversi secoli e alla domanda “cosa è u lareddru” si usa rispondere che è l’angioletto che abita la casa. Si evince da ciò un’assimilazione dell’antico rito sotto una forma cristiana e che chiaramente il termine Lareddru derivi dal termine Lare con l’assunzione di un suffisso diminutivo –ddru, forse finalizzato a rendere questa figura originaria della religione precedente più accettabile a chi vede con cattivo occhio il perpetrarsi di determinate forme tradizionali. Il Lare è una divinità domestica e gli si officiano offerte e il rituale su esposto svela che determinate tradizioni hanno assunto una nuova veste ma si sono mantenute. Castaneda definisce i luoghi concavi abitati da spiriti; il suo maestro pensa che esistano anche nelle automobili e in tutti i luoghi artificialmente prodotti dagli uomini, come ad esempio nelle case. Se ciò fosse valido anche per la tradizione romana avremmo una risposta significativa alla domanda: perché nei luoghi abitati vi sono Lari e nelle campagne Geni? Perché il Lare è richiamato dall’azione artificiale dell’uomo, il Genio dall’azione della Natura di creare un luogo. Riscontriamo nelle città antiche la presenza di specifiche divinità all’interno delle mura urbane, altre venerate in santuari all’infuori di queste stesse mura. Una stessa divinità può essere un Lare cittadino o il Genio di un promontorio. Perché Venere è Lare dei Romani (insieme a Marte) ma allo stesso tempo Genius Loci al Capo Ericino? Perché nella creazione della città di Roma in un modo o in un altro Venus è stata attratta dai luoghi prodotti dagli uomini, ad Erice Venus era già presente prima come Genius Loci, riconosciuta tramite una sua epifania dagli uomini, ordinò l’erezione di un suo Santuario, dunque fu attratta precedentemente dalla Natura che creò il capo ericino. |
Una simile interpretazione bene spiega il perché dell’assioma romano: i Lari vivono nei luoghi abitati dagli uomini. Essendo il Lare un ente vivente, invisibile a meno che non decida di presentarsi materialmente, è una forza agente che interagisce con l’ambito umano. Si hanno conseguentemente un’infinità di forze agenti in diversi aspetti: i Lari familiari (quindi i geni protettori della famiglia), i Lari compitali (abitanti degli incroci), i Lari triviari (abitanti dei trivi), i Lari della casa intesa come luogo fisico. I Lari familiari, il Genio di ogni componente della famiglia, le genialità che si occupano della dispensa rientrano nella cerchia delle divinità domestiche. Perché queste divinità agiscano a nostro favore necessitano una serie di riti atti a creare una collaborazione tra essi e gli uomini (una sorta di Pax domestica, per riprendere le parole di Elio Ermete).
Nella tradizione romana i gentili attuano una serie di pratiche di realizzazione dell’individuo a partire dalla maggiore età con l’assunzione della toga virile. Il richiamo agli antenati ha finalità evolutive, poiché si richiamano anime che conoscono la via di realizzazione dell’individuo e possono aiutare i loro discendenti; per questo motivo comunemente si usano considerare gli antenati membri delle divinità domestiche. Nella rituaria gentile il praticante conosce i propri Lari ed Elio Ermete nelle sue “Conclusiones Gentiles” spiega che: “Vesta è la più onorata, poiché il fuoco ch’ella custodisce tutto permette…” , che i Lari rientrano nella gerarchia divina da lui esposta e che “la divinità gentilizia sempre segue la famiglia, nei luoghi in cui essa sceglie di vivere, così il genio di ognuno segue il suo amato ovunque e sempre……esistono metodi di chiamata dei Lari, i quali allontanano entità fastidiose e negative…ma la chiave di tutto è sempre il carattere del gentile, che gli permette di avere buone relazioni con gli uomini e con gli dei…” |
Angerona ed il Giove Fanciullo
Pochi lo sanno, ma la Dea Angerona è strettamente connessa con il Giove Fanciullo, il medesimo venerato ad Anxur (nome volsco di Terracina).
Nell’antica Roma, durante i Divalia del 21 dicembre, avvenivano in contemporanea ai festeggiamenti saturnali, i riti solari per il solstizio e si applicavano i misteri di Angerona, i quali connettono il silenzio alla predestinata nascita del Sole; A Terracina festeggiato come un Giove Fanciullo (Iuppiter Anxur): non a caso l’Associazione Tradizionale Pietas ha scelto di festeggiare il solstizio presso il tempio da lei eretto a Giove. Fondamentale anche il nesso tra Angerona e Venere Libitina (è nel tempio di questa dea che si serbava il sacello dedicato alla signora del Silenzio). A sua volta anche Libitina è connessa alla morte del Sole (21 dicembre) ed alla coscienza della sua certa rinascita (25 dicembre dies natalis Solis Invicti). In tutto ciò la presenza di un sacello dedicato a Venere presso il tempio di Giove Anxur ha mandato in crisi gli archeologi che cominciano a lanciare svariate ipotesi che, prive della cognizione della Tradizione, allontanano dalla comprensione del reale nesso tra Venere e Giove fanciullo.
I medesimi misteri, una volta riconquistatili, Pietas li serba e festeggia nel Sanctuarium Pietatis (dove è stato eretto il tempio di Giove) attenendosi fedelmente alle fonti ed alle logiche antiche.