E’ opinione diffusa che la civiltà e la cultura di Roma siano state maschiliste e patriarcali. Questa idea si basa innanzitutto sulla constatazione che i Romani discendevano da popolazioni indoeuropee, la
cui società si basavano su presupposti considerati espressione di una supremazia maschile. E’ pensiero diffuso inoltre che, a Roma, le donne fossero prive di personalità giuridica, cosa che si rifletteva anche nell’onomastica.
Mentre l’uomo era contraddistinto dai tria nomina, praenomen, il nostro nome personale, nomen, quello della gens e cognomen (antico
soprannome, che passa poi ad indicare le varie famiglie nell’ambito della gens) la donna era indicata con il solo nome della gens al femminile. In realtà il soprannome, che spesso ridicolizzava per gioco alcuni aspetti dell’uomo, non si usava sulla donna esclusivamente per rispetto nei suoi riguardi.
Si pensa inoltre che la donna fosse giuridicamente una eterna minorenne, destinata a passare dalla tutela (manus) del padre a quella del marito, e poi
eventualmente a quella di un tutore. In realtà tutela nel mondo romano ha un significato diverso rispetto all’attuale mondo islamico: nel mondo romano sta per garanzia, protezione dai pericoli, difesa. In età imperiale è infatti riscontrato che la donna avesse, de facto, una sua autonomia, la possibilità di amministrare i suoi beni e di decidere della sua vita, con l’ausilio di un tutore maschio (padre o marito) che aveva il compito di garantire che nessun farabutto approfittasse di lei o le truffasse la dote. L’idea preminente degli studiosi è che la donna romana, almeno all’inizio, fosse stata condannata ad un destino di cittadina di serie B, sottomessa totalmente alla volontà dei membri
maschili della sua famiglia, senza la possibilità di agire autonomamente, di esprimere una sua opinione, o di poter incidere nella vita della sua famiglia e della sua città. In realtà le cose non stanno affatto così. Nella storia di Roma non mancano le figure di donne che, grazie alla loro personalità e alle loro qualità, seppero imporsi
all’attenzione e spesso all’ammirazione di contemporanei e posteri, e lasciare una traccia indelebile nella storia della loro città, mutando
spesso il corso degli eventi. Iniziamo questa carrellata di ” Mulieres Clarae “, come avrebbe detto Giovanni Boccaccio, con la prima romana che
emerge dalle pieghe della storia e del tempo: Ersilia, moglie di Romolo e, con lei, le donne sabine.
21/8/749 a.e.v. Sono passati poco più di quattro anni dalla fondazione di Roma. Nella valle tra Palatino e Aventino, la Vallis Murcia, i giovani romani stanno apprestando i palchi che accoglieranno gli ospiti di altre città, per lo più sabine, invitati ad assistere ai giochi e alle corse di cavalli in onore del dio Conso, dio dei granai, cui si consacrerà un altare sotterraneo. In un palco speciale, prenderà posto Romolo, il re fondatore, che ha invitato i popoli confinanti all’importante festa. In realtà questo invito cela uno scopo segreto.
Roma, fondata 21/4/753 a.e.v., è rimasta città di quasi soli uomini: pastori dei dintorni, rifugiati politici, sbandati, briganti e poco di buono scacciati dalle rispettive comunità, ma accolti da Romolo
nell’asylum, luogo fra le due selle, l’arx e il capitolium, dopo la promessa di cambiare vita e di fare qualcosa di utile per la città.
Mancano però le donne, senza le quali Roma rischia di sparire nel corso di una generazione. Romolo manda quindi ambascerie ai popoli vicini,
Ceninensi, Antemnati, Crustumini e soprattutto Sabini, per stringere alleanze mediante matrimoni fra i suoi sudditi e le figlie degli stranieri. Questi però rifiutano, perchè la fama dei Romani è pessima e
nessuno vuole averli come generi, o forse temevano che se Roma fosse cresciuta si sarebbe imposta occupando i loro territori ed il loro spazi.
Il momento è grave, ma Romolo elabora lo stratagemma delle celebrazioni in onore del dio Conso. I vicini accorrono, anche per la curiosità di
conoscere la nuova città,e, fra le loro donne, le più belle sono le vergini sabine, che spiccano per i loro begli abiti bianchi. La festa si protrae per tutta la giornata, fra giochi, corse di animali, allegria,
canti, frequenti libagioni di buon vino.
Verso sera, al segnale convenuto dato da Romolo, i giovani romani si gettano sulle ragazze ospiti e, approfittando dello sconcerto e forse dell’ebbrezza che ha colto i loro parenti maschi, rapiscono le
più belle. Gli ordini di Romolo sono tassativi: rapire solo le fanciulle vergini e, soprattutto, trattarle con il massimo onore e rispetto, senza assolutamente maltrattamenti, forzature e violenze. Accade però che, nel parapiglia generale, venga rapita anche una donna già sposata, Ersilia che, per rimediare all’errore, Romolo terrà per sè. I genitori e i
parenti delle ragazze, sconsolati tornano alle loro abitazioni, meditando vendetta.
Intanto, le fanciulle rapite, dapprima oltraggiate dal gesto e timorose per il loro futuro, vengono rassicurate dalla gentilezza e dall’affetto che i rapitori dimostrano nei loro confronti e dalla fattiva
condivisione di beni e cittadinanza. Rifiutano perciò di ritornare alle loro famiglie. Al contrario, i loro parenti non si rassegnano e i Ceninensi, gli Antemnati e i Crustumini mandano ambascerie al re sabino Tito Tazio, il più potente fra loro, che però indugia a muovere guerra ai Romani. Si muovono allora prima i Ceninensi e poi gli Antemnati, che
vengono però sconfitti. Mentre Romolo esulta, ecco però intervenire Ersilia. Mossa a compassione dalle preghiere delle ragazze rapite, che temono per la sorte dei loro cari sconfitti, prega il marito di deporre ogni ostilità e di accogliere i vinti come cittadini così da formare un unico popolo, cosa che ottiene senza difficoltà. Evidentemente l’ascendente che questa giovane e bella matrona ha su Romolo, ha già ingentilito l’animo bellicoso del marito e lo ha predisposto a deporre ogni rancore e a condividere bene e destino con i vinti, divenuti nuovi cittadini.
A questo punto, i Crustumini decidono di abbandonare la lotta e vengono pacificamente integrati nella nuova realtà romana. Ersilia ha quindi ottenuto un grande risultato, il superamento di odi e rancori tra i mariti e i parenti delle rapite. Il difficile, però, deve ancora arrivare. Infatti i potenti sabini non rinunciano a combattere per riavere le loro figlie e, grazie all’inganno e al tradimento di Tarpea, figlia del custode del Campidoglio, riescono ad espugnare la rocca.
Il giorno dopo scoppia, nella valle del Foro, tra i Romani che scendono dal Palatino e i Sabini che calano dall’altura occupata, una violenta battaglia. Dopo alterne vicende e molto sangue versato, i Romani stanno per prevalere, ma a questo punto le donne sabine, disperate, vinta ogni paura, molte incinte e altre con in braccio i figlioletti nati dalle
unioni con i Romani, guidate dalla indomita Ersilia, si gettano fra le due schiere, sfidando dardi e frecce, e supplicando i contendenti piuttosto di rivolgere le armi contro di loro, causa della contesa.
Preferiscono morire, dicono, piuttosto che rimanere vedove oppure orfane.
Commossi da quello spettacolo inatteso, Romani e Sabini gettano le armi e i capi, seduta stante, stringono un patto di alleanza. Non nasce solo
una pace ma, dice Tito Livio, da due popoli ne scaturisce uno solo. La pace, nata miracolosamente da una guerra così sanguinosa, rende le donne
sabine ancora più care ai mariti e ai padri, e Romolo le ricompensa dando alcuni dei loro nomi alle trenta curie in cui suddivide il popolo romano.
Possiamo quindi certamente concludere che Romolo fondò Roma, ma la città fu salvata nella sua esistenza e consolidata nel suo sviluppo dalle
donne sabine e dalla loro azione coraggiosa, donne sabine che trovarono in Ersilia, la moglie del re, una guida indomita e saggia. Se Romolo fu il pater patriae, Ersilia ne fu sicuramente la mater.
Paola Marconi