I SEGRETI DEL CIBO DELLA FESTA DEI MORTI

di Noemi Marinelli Barbera

Ogni anno, di questo periodo, tanti sono i luoghi in cui il pensiero va a chi non c’è più.

Le forzature storico religiose  hanno teso a comprimere in un unico momento una celebrazione che, nei vari posti del mondo, a seconda delle latitudini, si sarebbe vissuta nel tempo indicato dalla natura.

Le feste precolombiane dedicate ai morti ad esempio – ispiratrici degli attuali festeggiamenti mesoamericani – cadevano in estate, mentre era febbraio il tempo delle feste romane di Parentalia e Feralia.

L’esperienza del ricordo era sempre connessa a momenti in cui il buio tendeva a prevalere sulla luce, essendo il buio, a livello intuitivo, la dimensione di chi abita il regno dei morti.

Quando arriva il momento del passaggio stagionale,  le giornate si accorciano e si presenta l’occasione per il raccoglimento interiore ed esteriore (voglia di trascorrere più tempo a casa, di rientrare prima, voglia di tepore domestico).

Nel mondo antico l’uomo viveva a contatto con la natura e ne osservava i ritmi molto più di adesso, poiché da essa dipendeva la sua esistenza.

Ad oggi, sebbene sia ancora così, l’uomo moderno presume di andare per proprio conto e poter fare a meno di fermarsi e capire. Ma la forza della tradizione scorre in ognuno, malgrado il proprio livello di coscienza, e invita silentemente a perpetrare rituarie ricche di significato.

Il cibo in queste occasioni assume un potente valore magico, tantissime le ricette tramandate e preparate per i defunti: il banchetto della festa è imprescindibile, elemento di comunione e connessione tra i due regni, spesso consumato persino nei pressi del sepolcro.

Ancora oggi in India, paese tradizionale con continuità ininterrotta, dopo aver ritualizzato – e offerto cibarie, fiori e incensi sugli altari – i fedeli consumano ogni cosa entrando in comunione con il destinatario dell’offerta, sia esso un Dio, uno Spirito o un Antenato .

Allo stesso modo, nelle preparazioni per i defunti, ritornano ingredienti molto odorosi e gradevoli il cui aroma sfama i morti, poiché il profumo è nutrimento dell’invisibile, e il resto ciba i vivi, permettendo il contatto e l’unione tra i mondi.

OLTRE CHE FONTE DI SODDISFAZIONE IMMEDIATA SIA PER I MORTI CHE PER I VIVI, PER VIA DELLA LORO PIACEVOLEZZA, LE CIBARIE DEL BANCHETTO ASSOLVONO AD ULTERIORI FUNZIONI, TUTTE A VANTAGGIO DI CHI STA ONORANDO GLI ANTENATI.

L’indubbia valenza salutifera del banchetto autunnale va ricercata nelle meravigliose virtù di ciascuno dei tipici ingredienti presenti sulle tavole: ceci, zucca, castagne, mandorle, aglio, melograno, fave, fiori di sambuco, limone… tutti alimenti che depurano l’organismo e lo preparano al passaggio stagionale.

Guardando bene scopriremo che ovunque, a prescindere dai luoghi, ingredienti ricorrenti sono le spezie e soprattutto i semi (sono semi anche i legumi e la frutta secca) e l’amore è l’elemento chiave con cui preparare il tutto (il dolce pensiero per chi non c’è più e per i familiari con cui si condivide la mensa).

E allora penseremo all’analogia del seme che solo se posto nel buio della terra – sotterrato – e accudito con amore, potrà tornare un giorno a vita nuova e dare buon frutto – nel suo eterno ciclo di vita, morte apparente e rinascita -.

Portare il seme in sé per condurre in noi la sua forza, la sua intelligenza e la salubrità che ci dona, portare il seme in sé per rinnovare la certezza della vittoria della luce sul buio.

Così anche il buio diverrà momento fondamentale e sarà approcciato da ognuno con pazienza, attesa, speranza e gioia, piuttosto che nel timore.

Una piccola notazione sulle fave e le leguminose a baccello, considerate classico cibo dei morti: sono tra le uniche sementi che è possibile seminare in novembre, laddove le rigide temperature permettono solo a queste resistentissime piante di sopravvivere al gelo.

Felice festa ad ognuno.

 

La scuola di Esculapio nella dimensione Romana

Nel mondo romano la medicina è sviluppata in dimensioni parallele tra loro. Non vi è solamente la dimensione della cura fisica, ma anche quella della soluzione metafisica. Si riscontra in ciò una eredità proveniente da tempi e luoghi lontani, difatti tale sistema d’interazione si riscontra per esempio nell’antico Egitto, che a sua volta pare aver ereditato dalla Babilonia il concetto di azione metafisica sui mali[1].

Secondo la cultura mesopotamica il male consisteva in una intelligenza che agiva sull’uomo guidando un esercito di demoni invisibili all’occhio umano[2]: sembrerebbe una primitiva (ma non tanto) definizione del concetto di virus e batteri o il tentativo di spiegazione ad un bambino di come si sviluppano le malattie, con l’aggiunta di un concetto metafisico mancante alla moderna medicina occidentale.

Limitati dai mezzi analitici moderni riusciamo ad osservare il male solamente per mezzo di ciò che riusciamo a vedere con i nostri strumenti, dunque ciò che rileviamo tramite il microscopio e le varie tecnologie di visione fisica, ciò che è occultato dalle carni e delle dimensioni minuscole. Non esistono purtroppo mezzi che permettano la visione di intelligenze a se, o forse le vediamo ma ancora non le riconosciamo: se nel DNA si conservano geni, come possiamo sapere se essi abbiano o meno una relazione con quelli che noi definiamo in senso romano come Geni? Eppure quella è la memoria storica nostra, del nostro sangue, che cangia per ogni individuo in base a come egli si è formato nell’interazione di concepimento ereditando dai cromosomi dei genitori.

Allo stesso modo il Genio della persona cangia per ognuno ed è connesso al suo sangue ed alla sua formazione di concepimento. Forse i romani vedevano nel Genio ciò che noi vediamo nei geni del DNA? L’approccio illuministico alla religione contemporanea ha fatto si che considerassimo l’ideale antico come una superstizione, ma di quelle idee [causa le persecuzioni culturali della mistica tardo-antica e medievale, il cui risultato sono stati gli incendi delle biblioteche antiche (prima di tutte quella di Alessandria)  ed i decreti criminali di Teodosio II], non sappiamo quasi nulla, poiché sono filtrate dalla tradizione scritta del basso medio-evo, la quale ha recuperato poco, oltretutto filtrandolo con la sua ottica. La sola lettura di Platone, Aristotele, Macrobio, Lucrezio e qualche altro non è sufficiente a definire il modo di pensare di un intero mondo: i pochi autori a noi giunti ci permettono di vedere soltanto due o tre colori di un intero arcobaleno.

Le continue ricerche e gli studi congiunti delle fonti possono però permettere di cominciare a intravedere qualcosa del modo di pensare degli antichi.

In Egitto il rinvenimento di una vera e propria enciclopedia medica su fogli di papiro dà una chiave importante sulla visione in piani paralleli delle medicina. All’analisi dei sintomi segue la definizione del male e la successiva proposta di cura, tramite metodi simili a quelli dell’alchimia spagirica, cui successivamente si propongono usi rituali, qualora la terapia fisica proposta non abbia dato i suoi risultati.

Un tale sistema si riscontra anche nella romanità quando Cicerone[3] propone una cantilena magica per curare le lussazioni.

I due sistemi medici, fisico e metafisico, convissero ovunque tra loro fino al termine del V sec. a.C. (seconda metà del IV sec. dopo la fondazione dell’Urbe), quando nell’ambito Crotoniate la scuola pitagorica affrontò il tema terapeutico in un’ottica esclusivamente metafisica[4], mentre la scuola di Alcmeone diede importanza esclusiva all’azione chirurgica[5].

Secondo il mito greco la medicina è una scienza creata dal dio Esculapio, figlio di Apollo, padre dei geni Podalirio, Macaone, Acheso, Ygieia, Panacea, Iaso, Egle.

Esculapio insegnò la materia a Iaso che poi la trasmise all’uomo Ippocrate.

Questa scienza poteva persino resuscitare i morti, cosa che Esculapio fece, ma Zeus fulminò il sapiente dio perché cominciò ad andare contro l’ordine naturale delle cose, ossia contro la legge.

Apollo si rifiutò allora di far sorgere il Sole e Zeus fu costretto a ridar vita al nipote. A Esculapio fu concesso di continuare a praticare la medicina, purché essa rispettasse le leggi della natura.

In questo mito si evince l’etica del terapeuta antico: la medicina non deve servire a rendere l’uomo immortale ma immune dal male.

La formazione alla medicina sacra avveniva nei templi di Esculapio, i quali, oltre ad essere noti nel mondo antico per i miracoli che in essi avvenivano, esponevano nelle trabeazioni o nei timpani dei sistemi iconografici simboleggianti l’essenza del metodo metafisico. Centauromachie ed amazzonomachie rappresentavano la lotta contro gli istinti umani, identificati nella forma dell’ippos, il cavallo, ed il titolo sacerdotale di colui che imparava a gestire tali istinti era “Ippocrate”[6], pertanto il giuramento di Ippocrate non è da attribuire ad Ippocrate ma è il giuramento che doveva fare l’Ippocrate, ossia colui il quale, terminato il periodo di noviziato, veniva iniziato ai misteri medici.

I sacerdoti che raggiungevano il più alto grado terapeutico erano considerati direttamente istruiti dal dio Iaso, il figlio di Esculapio che insegnava la medicina agli uomini, pertanto il titolo sacerdotale di questi era “l’unto di Iaso”, in greco Iasous Christos.

Con l’ellenismo la diffusione della cultura greca porterà a numerosi sincretismi ed intrecci tra i diversi patrimoni di conoscenze, ciò probabilmente darà vita al mito del Cristo che resuscita Lazzaro, ossia un terapeuta unto di Iaso che resuscita un uomo; questo in questione è a sua volta proveniente dal mito di Horo che resuscita El-Lazar: un sincretismo tra cultura Greca ed Egizia in ambito Israelita (se lì ha avuto origine questo mito).

Allo stesso modo quando i rotoli del Mar Morto definiscono Iesous Christos come un terapeuta non mentono: probabilmente il maestro di quella setta era stato iniziato e formato all’interno di un Asclepion. Perché non lo dicono? Dobbiamo pensare che in un mondo dove un titolo si conferisce solo in alcuni luoghi (come oggi quello di medico solo nelle università) è già sottinteso, alla menzione del titolo, di chi o di cosa si stia parlando. Se noi scrivessimo che il medico chirurgo del paese insegna a pulire le ferite con un disinfettante dovremmo forse spiegare chi è il medico chirurgo, da dove viene e chiarire che questo è un attributo e non un nome proprio? Scrivendo per altra gente che vive nel nostro ambiente ciò sarebbe superfluo, ma chi leggerà fra duemila anni il nostro scritto probabilmente neanche saprà più cosa sia un medico-chirurgo e potrebbe dare chissà quale interpretazione. Per analizzare scientificamente gli scritti antichi necessita approcciarsi con la consapevolezza di oltre duemila anni di distanza e della grande interruzione culturale che è stato il periodo tardo-antico e medievale: un periodo in cui si sono chiusi i rubinetti per riscoprirne l’esistenza solo nel XVIII sec. e.v.

Il “dominio sul cavallo” si applicava in primis con la purificazione dello/dallo stesso tramite abluzioni, per tale uso erano collocati nell’Asclepion grandi bacili o strutture idriche con grandi vasche lustrali. Perché l’individuo potesse essere curato doveva sottomettere i suoi istinti, quindi veniva obbligato ad eseguire un’apposita dieta (digiuni rituali) e relativa castità per non disperdere le sue forze. Dunque gli venivano somministrati determinati medicinali estratti da erbe e minerali esclusivamente nei momenti ritenuti “favorevoli”, calcolati sulla base dell’andamento lunare. Evidentemente l’osservazione semplice fece notare ai farmacisti antichi ciò che noi scopriamo solamente oggi: i principi attivi della pianta cangiano in base all’ora della giornata, alla quantità di luce solare ch’essa riceve.

A ciò seguiva l’interazione di apposite pratiche magiche, ognuna specifica ad una funzione differente, per esorcizzare il male dall’individuo.

Ad esempio in una lastra di marmo con testi di sanationes, proveniente dall’Isola Tiberina, è riportato uno di questi riti magici, che fu ordinato per oracolo:

In quei giorni ad un certo Gaio cieco il dio ordinò per oracolo di andare al sacro podio e di rendere omaggio, poi di muoversi da destra a sinistra e di mettere le cinque dita sul podio e di sollevare la mano e di porla sui propri occhi. E vide bene, essendo il popolo presente e con lui festante, perché si erano manifestate vive forze divine sotto il nostro augusto Antonino[7].

Numerosi sono i miracoli che si compivano negli antichi templi di Asclepio, tutti testimoniati da epigrafi votive incise a guarigione ottenuta. Ne riportiamo due esempi.

All’asclepion di Epidauro una stele racconta quanto segue:

Dio. Buona Fortuna. Guarigioni di Apollo e di Asclepio. Kleò fu incinta per cinque anni. Costei, incinta già da cinque anni, venne supplice al dio e giacque nell’abaton. Non appena ne fu uscita e si trovò fuori dal santuario, partorì un bambino, il quale appena nato si lavava da sé alla fontana e andava in giro con la madre. Avendo ottenuto ciò, ella fece scrivere sul ricordo votivo: ‘Non la grandezza della tabella è degna di ammirazione, ma lo è la divinità. Per cinque anni infatti Kleò portò un peso nel ventre, fino a che giacque ed il dio la rese sana’[8]. Notiamo che oltre ad Asclepio è onorato il padre Apollo, e prima di essi Zeus e la Fortuna, che in molte tradizioni antiche sono considerate divinità primordiali[9]. Colui che redasse questo racconto non doveva sapere nulla di Kleò e delle sue vicende, se non quanto lesse dal pinax votivo e dall’epigramma sopra inciso. Leggendo in codesto epigramma il verbo ekyese lo interpretò nel senso di una vera e propria gravidanza ed aggiunse il particolare del neonato già maturo. L’epigramma invece parla di un peso nel ventre e dà probabilmente al verbo kyein il senso, altrove attestato, di falsa gravidanza[10]. Al di là dell’erronea interpretazione del redattore del testo, l’epigramma a cui lui fa riferimento ricorda una guarigione avvenuta proprio nel tempio di Epidauro.

Un malato di sciatica venne invece curato a Lebena con la medesima tecnica che fino al secolo scorso si utilizzava nelle campagne cretesi, lo ricorda il seguente testo inciso sulle pareti dell’adyton:

Asclepio ordinò a Demandros di Kalabis gortinio, sofferente di sciatica, di venire a Lebena, perché lo avrebbe curato. E appena fu venuto, lo tagliò durante il sonno, ed egli guarì.”[11]

Il sistema rudimentale consisteva nel praticare dei tagli nelle zone dolenti. Chi compie il gesto, direttamente e con decisione, è proprio Asclepio.  Probabilmente i chirurghi di questi templi si consideravano guidati dal dio, motivo per il quale attribuivano direttamente a lui l’azione. Ciò dimostra che si agiva su tutti piani, da quello materiale con azione persino chirurgica, a quello metafisico partendo dalle tratte oracolari fino alle azioni nella dimensione onirica.

Roma, Isola Tiberina, lastra marmorea con testi di sanationes. M. Guarducci, L’epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma 1987, pag. 306, fig. 101.
Roma, Isola Tiberina, lastra marmorea con testi di sanationes.
M. Guarducci, L’epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma 1987, pag. 306, fig. 101.

Tante altre testimonianze ricordano miracoli ed azioni della terapeutica antica, rimandiamo alla seguente bibliografia lo studioso interessato all’approfondimento:

  1. Herzog, Die wunderheilungen von Epidauros. Leipzig 1931.
  2. e L. Edelstein, Asclepius. A collection and Interpretation of the testimonies, I-II, Baltimore 1945.
  3. Guarducci, L’Isola Tiberina e la sua tradizione ospitaliera, in Rend. Lincei, 1971, pp. 267-281, tavv. 1-3.

[1] Si veda l’Introduzione alla storia delle religioni di Brelich per comprendere i processi di trasmissione culturale dal medio-oriente all’Egitto.

[2] —- mitologia caldea —

[3] Riportato anche da Agrippa in La Filosofia Occulta

[4] Pitagora, formatosi tra Grecia, Egitto e Persia, creò un sincretismo rituale che giungeva, al di là delle forme culturali, nell’essenza matematica, la cui visione fondamentalmente metafisica tralasciava oramai l’azione nel campo materiale, ritenuta un prodotto del mondo delle cause (l’astrale platonico), pertanto i Pitagorici prediligevano agire direttamente nei campi superiori per influenzare quanto necessario nei campi materiali.

[5] In età classica la scuola medica di Kroton formò i migliori chirurghi dell’epoca.

[6] Etimologicamente “dominio sul cavallo”

[7] M. Guarducci, L’epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma 1987, pag. 306.

[8] IG, IV, I(2) 121, ll. 1-9; EG, IV, pp. 149-151.

[9] Si veda il caso della mitologia laziale, che vede Fortuna come prima divinità generatrice e Giove e Giunone suoi figli diretti.

[10] M. Guarducci, pagg. 304, 305.

[11] M. Guarducci, pag. 305.